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Era pure ora che tornasse ‘Sarabanda’

Il 21 luglio è ripartito lo show condotto, ancora una volta, da Enrico Papi. E, nell'era in cui tutto deve rinnovarsi quasi per contratto, ritrovare le cose come le avevamo lasciate è un grande sollievo

Sarabanda Enrico Papi

Enrico Papi per il lancio di 'Sarabanda', nel 1997

Foto: Mario NotarangeloMondadori via Getty

Ridateci i Novanta, con il loro profumo di Axe Marine, le serate in Riviera a bere l’Angelo Blu e poi fiumi di parole a vanvera. Sarà stata l’era pre-euro in cui con un deca potevi fare quasi tutto (tranne andar via) ma oggi più che mai il revival è il punto di forza di ogni evento sociologico e culturale. Un motivo deve esserci. Dalla reunion degli Oasis alla serie tv sugli 883 c’è uno scrigno nel nostro tempo da cui sembrano venire solo cose buone.

Pure ciò che all’epoca ci pareva scarso, paragonato al presente, è degno di valore. L’esempio lampante è il ritorno prepotente, vincente, gasante di Sarabanda, il rumoroso telequiz andato in onda già dal 1997 al 2004 e condotto da Enrico Papi, in cui i concorrenti devono indovinare delle canzoni nel più breve tempo possibile.

Perché riproporre un programma terminato da vent’anni? Perché a volte per essere avanti è necessario tornare indietro, significa compiere un segno di grande umiltà e qualcuno a Mediaset deve averlo capito.

Ho amici che ridono a oltranza se vedono qualcuno inciampare, altri che guardano per ore video di indiani che costruiscono piscine. Non c’è da chiedersi perché, il cervello ne vuole ancora. Con Sarabanda succede la stessa cosa forse perché la formula è triggerante: indovina prima del tuo avversario questa canzone uguale a mille altre! Facile, no? E a tutti pare di averla indovinata, ma confondiamo il titolo, il ritornello ne ricorda un’altra.

Poi ci sono degli eletti, degli uomini e delle donne definibili degli Shazam umani che tutti vorremmo come amici: i campioni del gioco. Chi non ricorda “l’Uomo Gatto”, ovvero: Gabriele Sbattella. Campione per 79 puntate, diventato leggenda con i suoi capelli assurdi e le sue incazzature. Non ha mai vinto il montepremi ma è stato una base meme vivente prima che i meme esistessero.

Ecco il valore culturale, la mescolanza di alto e basso che piaceva a Umberto Eco. La tv è sempre dichiarata spacciata a ogni rivoluzione, ma non muore mai. I meme esistevano già, solo che non lo sapevamo. Non era da meme un’abilità quasi autistica di azzeccare un motivetto mischiata spesso a una personalità veramente stramba?

Celebri a riguardo: “Tiramisù”, il campione dalla timidezza patologica, “Valentina” la campionessa cieca con il pupazzo di Pikachu sempre in consolle, “Allegria”, tecnicissimo campione che non ha mai accennato a un sorriso. E poi si va nella mitologia: “Max”, il concorrente mascherato con la parrucca che solo dopo decine di puntate svelò la sua identità. Siccome la fidanzata era finita in un giro di droga, temeva ripercussioni ed estorsioni e non voleva farsi riconoscere; dulcis in fundo: “Coccinella”, che deve il nome all’aver indovinato un omonimo motivetto impossibile di Ghigo Agosti datato 1959. Manco l’AI.

Ed ecco l’Italia, la festa di paese, la gara a vincere, il talento puro e immotivato sprecato nei modi più rocamboleschi. Siamo noiii, siamo noiii i campioni i campioni siamo noiii. Ah, tutti i soprannomi che avete appena letto apparivano già scritti così in sovraimpressione sullo schermo grazie a una geniale trovata della regia. Nickname antelitteram.

Enrico Papi che urla: “La Bambaaa” quando il concorrente azzecca il pezzo di Ritchie Valens fu una delle gaffes più genuine di sempre, pur essa una base meme ante litteram.

Papi pure lui un eletto. Faceva il telepaparazzo negli anni Novanta (fregandosene di ogni privacy sgamava i vip a cena con l’amante, erano altri tempi), voleva fare il comico ma non faceva ridere, poi divenne testimone del CEPU dopo Del Piero ma abbandonò quando scoprì che per essere pagato doveva fare tre esami all’anno e c’era pure da studiare. Si fece notare da Magalli («Giancarlo fu eccezionale, fu colpito dalla mia intraprendenza. Un giorno quel pazzo ebbe un’idea strepitosa: ci fece vestire in divisa nazista per chiedere lo sconto militari al cinema. Chiamarono la polizia» ha dichiarato al Corriere della Sera nel 2024. Erano altri tempi, seconda volta).

Torna Sarabanda e torna quindi la nostra voglia di cazzeggiare alla tv, di non giudicare le nostre risate, di essere un po’ più alla Marchese del Grillo, un pò meno qualsiasicosa-correct. Che poi proprio noi fan delle tamarrate siamo esattamente il tipo di persone che rendono vive le cene, che ti strappano una risata. Tutti a fare gli intelligentoni e i seriosi e poi i programmi culturali mica se li filano, li vedi che sbirciano di nascosto i meme su internet.

Sarabanda vince soprattutto oggi che c’è questa smania per cui tutto deve essere nuovo, mai ripetitivo, che un artista deve cambiare se no stufa. Papi conferma il teorema per cui la formula vincente non si cambia. Gli Oasis, di cui sopra, fanno i primi due dischi e mezzo dal vivo. Nessuno vuole sentire i pezzi di Dig out your soul. Vogliamo i classici, le hit. Vogliamo rivivere l’eterno ritorno della perfezione, riascoltare cento volte la stessa Some Might Say, riavvolgere il nastro e sentire Papi che annuncia: «Mooseca!». Poesia.

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