Che caldo fa: cosa bisogna sapere del riscaldamento globale | Rolling Stone Italia
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Che caldo fa: cosa bisogna sapere del riscaldamento globale

Un fisico del Comitato sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite ci spiega cos'è il riscaldamento globale e cosa rischiamo se non corriamo ai ripari

Foto: Don Becker per U.S. Geological Survey, Flickr

Foto: Don Becker per U.S. Geological Survey, Flickr

Il 30 novembre inizia la Conferenza sul Clima delle Nazione Unite a Parigi, incentrata sulle soluzioni per bloccare il cambiamento climatico. Per avere chiaro che cosa si intende quando si parla di cambiamento climatico o surriscaldamento globale, abbiamo chiesto aiuto al professor Riccardo Valentini, fisico italiano membro del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), un foro scientifico che unisce due organizzazioni delle Nazioni Unite creato appunto per fare ricerca sul riscaldamento globale. Valentini è parte del panel di studiosi dell’IPCC che nel 2007 è stato insignito del Premio Nobel per la Pace per l’impegno nel diffondere conoscenza sui problemi climatici.

Le cause del riscaldamento globale sono tutte legate all’uomo?
Sì, è stato provato. In questo momento ci troviamo in un’era interglaciale, una fase intermedia tra due glaciazioni, un periodo che si prevede più caldo. Ma i cambiamenti dovuti alle ere glaciali sono nell’ordine di migliaia di anni, quelli che vediamo ora sono nell’ordine di generazioni. In questo momento l’aumento è registrato a +0,7°C rispetto alla media prima della rivoluzione industriale.

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Quindi il cambiamento climatico ha avuto inizio nell’Ottocento?
Sì, in particolare a causa dell’utilizzo del petrolio come fonte di energia. Le fonti di energia non rinnovabili, come il carbone, il gas e appunto il petrolio, immettono ingenti quantità di anidride carbonica, gas responsabile del surriscaldamento, nell’atmosfera. Prima della rivoluzione industriale la concentrazione era di 280 parti per milione, oggi siamo a 400.

Il consumo energetico è l’unica causa?
No, ma è la principale, concorre circa al 75%. L’agricoltura e gli allevamenti intensivi sono responsabili al 14%. In alcune zone prevalentemente vegetariane (come India e Cina) è iniziata la domanda di carne bovina, si sono intensificati gli allevamenti, ed è aumentata la produzione di foraggio, il che richiede molto spazio.

La deforestazione dunque ha un ruolo importante nel surriscaldamento globale?
Assolutamente, il restante 11% è rappresentato dalla sola deforestazione amazzonica. Le zone temperate le stiamo deforestando da qualche secolo. Ora abbiamo iniziato con l’area tropicale, per reperire legno, ma anche per dare nuovi spazi all’agricoltura. Circa un miliardo di tonnellate di carbonio vengono emesse ogni anno da questo processo.

mobilita

Con l’IPCC avete descritto alcuni scenari possibili se le condizioni continuano a essere queste. Cosa dobbiamo aspettarci?
Questo è un momento alla Sliding Doors, in cui cambiando un dettaglio si cambia il finale. La politica ci chiedeva un dato preciso per capire il limite di sostenibilità, e noi l’abbiamo fissato a 2°C. Alcuni modelli mostrano che se si alzasse la temperatura a 3°-4°C si scioglierebbe la Groenlandia, producendo un innalzamento dei mari che metterebbe a rischio la vita di 100 milioni di persone. Se la temperatura dovesse alzarsi a 5°-6°C, un modello ipotetico che può diventare plausibile se la popolazione continua ad aumentare e le economie emergenti continuano a usare energie fossili, ci sarebbe la terza estinzione di massa delle specie animali e vegetali.

Cosa possiamo fare?
Dobbiamo rendere l’energia pulita, in particolare quella elettrica, usando il solare e gli accumulatori. Dobbiamo rendere le case efficienti, fare in modo che non disperdano energia termica. Poi c’è la questione della mobilità: bisogna utilizzare sempre meno le auto, preferire i mezzi pubblici e la bicicletta. È necessario rivedere il modo in cui viviamo.

cibo

Il cambiamento allora non è tanto tecnologico, ma sociologico.
Bisogna ripensare il nostro modo di stare insieme, la distribuzione della ricchezza, il modo in cui garantiamo diritti a tutti. Sembrano concetti scollegati, ma sono incredibilmente connessi. L’aspetto solo tecnologico non può determinare un cambiamento. Se siamo in questa situazione è perché l’uomo è un animale sociale, e la nostra vita di tutti i giorni è permeata dagli effetti del riscaldamento globale.

Come possiamo chiedere alle economie emergenti di sostenere i costi della riconversione green per rimediare a danni creati da noi?
L’accordo di Parigi si sta orientando su impegni differenziati, tutti partecipano alla riduzione delle emissioni compatibilmente con le loro economie. Ma bisogna distinguere tra economie emergenti: alcuni Paesi, come Cina, Brasile e Messico, sono ormai potenze economiche, quindi devono farsi carico della riduzione delle emissioni. Caso diverso per i Paesi africani, che sono ovviamente più fragili, ma che comunque trarranno vantaggio dall’essere protagonisti di un futuro sostenibile.

Infografiche di Sebastien Sardet

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di novembre.
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