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Un anno senza Giulio Regeni

Il 25 gennaio non è solo l'anniversario della scomparsa di Giulio Regeni, ma è anche il giorno in cui, sei anni fa, 50.000 manifestanti occuparono Piazza Tahrir, una rivolta conclusasi con le dimissioni di Mubarak

Un anno senza Giulio Regeni

Il flashmob di Amnesty International all’Università La Sapienza di Roma, 25 gennaio 2006

Il 25 gennaio, per l’Egitto e – ahinoi – da un anno anche per l’Italia, è un giorno dal significato particolare. Il 25 gennaio al Cairo si festeggiano le Forze Armate, ma da sei anni ricade anche l’anniversario della Rivolta di Piazza Tahrir, dove le proteste divamparono la sera del 25 gennaio del 2011. Dopo 12 giorni di battaglia nelle strade, i manifestanti deposero il regime di Mubarak , facendo da amplificatore alle Primavere Arabe – le rivolte dal basso, di rinnovamento, per i diritti e la democrazia che i popoli del Mediterraneo reclamavano dopo aver vissuto per decenni sotto il giogo decennale di regimi corrotti. Una generazione in rivolta in tutto il Mediterraneo che è poi stata tradita – lo vediamo in Libia, in Siria e nello stesso Egitto – e travolta dai giochi di potere, da errori strategici, dai poteri economici, militari e politici che hanno masticato e sputato la richiesta di cambiamento dei popoli del Mediterraneo. E poi oggi, 25 gennaio, è il primo anniversario del sequestro – al Cairo – di Giulio Regeni, il cui corpo fu poi fatto ritrovare ai bordi di una strada otto giorni dopo – irriconoscibile, sfigurato, violato e deturpato dalle torture subite.

È questa coincidenza di date e festeggiamenti che bisogna tenere a mente per capire, sentire e alimentare la voglia di verità. Se c’è una cosa, a proposito di Giulio, che abbiamo sicuramente capito è che la sete di verità dell’opinione pubblica, dei genitori e degli avvocati è più forte dei tentativi di insabbiamento. Gli sviluppi degli ultimi giorni ci fanno capire che ci sono delle crepe sulle coperture e sui depistaggi. Una mobilitazione continua (ad esempio, l’hashtag #VeritaEGiustiziaPerGiulio e #365giornisenzaGiulio, il nome della giornata di mobilitazione organizzata per oggi da Amnesty International) che ha quasi imposto al nostro governo di chiedere conto alla controparte e lavorare per la verità. Una volontà necessaria confermata dal premier Gentiloni: “Impegno per la verità”. Impegno che a nostro avviso passa anche dalla decisione del nostro governo di continuare o meno a non avere un nostro ambasciatore in Egitto.

Ma dobbiamo tornare sempre al 25 gennaio, oggi come lo scorso anno, anche se nel frattempo abbiamo capito che Giulio è stato preso perché il potere militare egiziano vuole il controllo sul popolo e rende ogni 25 gennaio un giorno di coprifuoco e non di festa. Una data che ha sancito l’inizio dei tumulti che hanno portato a un cambiamento epocale, che si è poi trasformato – come ripiegandosi su se stesso – in quello che l’Egitto è oggi: uno stato militare che controlla, incarcera, fa sparire e uccide chi è potenzialmente pericoloso, come Giulio, dato che ormai è accertato che già nei mesi precedenti era sotto stretto controllo delle forze di sicurezza locali. Ed è proprio questo aspetto a essere determinante nelle ragioni e nel perché ciò è accaduto – oltre che nel definire chi è stato. Qualcuno si è preso Giulio. Come scrive oggi Carlo Bonini su Repubblica, il governo egiziano potrebbe essere considerato il mandante del delitto. Questione di potere e di gestione della sicurezza interna da parte dei servizi segreti egiziani e dei loro diretti referenti al governo, dal Generale al-Sisi agli uomini del Ministero dell’Interno, che hanno gestito, alimentato e lavorato al sistematico occultamento della verità.

È proprio da quel 25 gennaio che oggi torniamo, da quel giorno che oggi il popolo del Cairo vive: una città che oggi era quasi deserta, dove girano pochissimi mezzi, dove piazza Tahir, luogo simbolo delle rivolte, sarà chiusa e militarizzata fino a questa notte, dove crescono i posti di blocco ovunque. Una città in cui le perquisizioni nelle università dal primo mattino sono la regola, dove decine di attivisti provano – attraverso i social media o l’autorganizzazione – a sfuggire al controllo e alla repressione del regime che ha portato oltre 60.000 persone in cella per motivi politici, che vede oltre 100.000 persone in carcere e decine di condanne a morte per tradimento. Senza contare la crisi economica che divora il paese (il Fondo Monetario Internazionale lo scorso novembre ha dato il suo ok a un aiuto/ricatto di 12 miliardi di dollari per i prossimi 3 anni). Una nazione con un welfare a picco che compete con i momenti peggiori dell’era Mubarak (e che contribuisce al deterioramento della vita quotidiana dei suoi abitanti).

Questo è lo scenario di oggi come di un anno fa. Una nazione, una città come El Cario in preda alla paura e alla militarizzazione. In questo contesto Giulio è caduto, e su quello che succede – non è insolito sentire paragoni con il Cile negli anni subito a ridosso della deposizione di Allende – abbiamo il dovere d’informarci, aggiornarci e condividere la ricerca di verità, giustizia e democrazia.

 

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