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Quanto può essere politico un referendum

Il dibattito sul referendum costituzionale ormai ha superato il testo della proposta per trasformarsi in uno scontro tra tifoserie. Non è una cosa nuova per queste votazioni, ma quella del 4 dicembre è diventata politica in un modo diverso

Quanto può essere politico un referendum

Ci stiamo faticosamente avvicinando all’ora X, il 4 dicembre. Il referendum in cui si chiede agli elettori di avallare o meno le modifiche alla Costituzione proposte dal governo e votate dal Parlamento. Abbiamo già avuto modo di spiegare sia cosa si sta votando e sia come il dibattito attorno abbia generato un clima bruttissimo, nervoso e tesissimo tra i sostenitori del Sì (chi accetta le modifiche come inizio di una nuova era per l’Italia e si riconosce nell’idea portata avanti dal presidente del consiglio Matteo Renzi) e quelli del No (per cui la Costituzione non si tocca, oppure si tocca ma con più coraggio, oppure si tocca ma non doveva farlo Matteo Renzi). Insomma, non è solo un gran casino, ma un casino brutto.

Una situazione aggravata dalla personalizzazione – macro-errore del Presidente del Consiglio – che ha generato toni spesso più legati alla tifoseria da stadio che non al dibattito politico. Dal bar sotto casa al bar dentro casa, quello su Facebook. Un tema, questo, che ha sia ridefinito lo standard della dialettica facendo interrogare sociologi come Sherry Turkle (che nel suo ultimo libro La conversazione necessaria cerca di spiegare come lo schema di dialogo dei social network porti a una radicalità delle posizioni con toni spesso risolutivi e prepotenti), sia riconfigurato la vita nello spazio politico, facendo impazzire gli studiosi e commentatori politici: da Ilvo Diamanti che su Repubblica cerca di riportare al centro il ruolo della mediazione a Marco Damilano, che su l’Espresso indica nella dialettica Sì/No la sconfitta della politica e indica nei non schierati che voteranno nel merito l’ago della bilancia passando per Francesco Cancellato che su Linkiesta accusa l’intero arco politico di aver generato il sempreverde clima infame da emergenza permanente di cui bisognerà accettare qualsiasi conseguenza perché, appunto, ce lo siamo voluto noi.

Abbiamo così perso di vista l’oggetto del contendere. Il referendum sulla Costituzione che propone modifiche sostanziali su argomenti sensibili per la vita pratica del paese e dei cittadini come il superamento del bicameralismo perfetto (l’Italia ha due camere con compiti pressoché identici, la riforma prevede un Senato “delle regioni” che non vota la fiducia al governo), l’eterno argomento populista del taglio dei costi della politica (li avete visti i cartelloni: vuoi meno politici? Basta un Sì!), ribilanciamento di poteri tra Stato e Regioni e così via. Quello che dovrebbe essere un voto tecnico ma, soprattutto, laico, è ormai un voto solo ed esclusivamente politico. Pro o contro Renzi. Pro o contro lo status quo. Chi vuole mandare Renzi a casa e chi vuole legittimare col voto il Presidente del Consiglio, che ha più volte dichiarato che rimetterà il mandato in caso di vittoria del No. A chi Basta un Sì per far capire che la propria linea politica sia l’unica alternativa alla paura, ai barbari alle porte, al Movimento 5 Stelle (primo partito nei sondaggi), alla Brexit, a Donald Trump; e chi Vota No perché con la mano sinistra dice che la costituzione è sempre la più bella del mondo (per onestà intellettuale: la costituzione è stata sempre modificata anche con obbrobri culturali notevoli come il pareggio di bilancio proposto dal governo Monti) mentre con la destra indica Renzi come il peggiore statista di tutti i tempi e vuole mandarlo a casa senza se e senza ma.

Insomma: una battaglia politica. Di cattivo gusto, con toni esagerati che rischiano di affossare la partecipazione già in crisi alla vita pubblica del paese, ma indubbiamente una battaglia politica. Ma sapete cosa? È sempre stato così.

Il referendum è uno strumento di consultazione popolare in cui la politica esce dal suo istituto di rappresentanza (io elettore voto te politico sulla base di un programma che mi rappresenta). Questa “arma” è stata usata per grandi battaglie, soprattutto su temi legati ai diritti civili. I più famosi sono i referendum proposti negli anni della Prima Repubblica (quel periodo storico che arriva a Tangentopoli e la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994) dai Radicali di Marco Pannella e Emma Bonino. I referendum sul divorzio del 1974 e il lungo iter sull’aborto tra il 1978 e il 1981 furono due grandi battaglie politiche e due grandi rivoluzioni culturali in un’Italia ancorata al governo permanente (e permanentemente in crisi) della Democrazia Cristiana. Battaglie che garantirono un deciso ritorno di immagine al Partito Radicale – non erano gli unici promotori, ma erano in grado di orientare l’opinione pubblica – che si tradusse in consensi elettorali e che minò alle fondamenta una cultura italiana legata alla sacralità del matrimonio e alla non-determinazione del corpo.

Usando, quindi, l’arma della consultazione popolare anche per dare “segnali” a quel palazzo da sempre sordo alle richieste del fantomatico paese reale, si sta facendo politica e si sta cercando di costruire un consenso da usare in chiave elettorale. Non è automaticamente convenienza, ma un ricorrere ai mezzi che si hanno. Il Partito Radicale è un piccolo soggetto politico in termini di iscritti e voti, e negli anni ’70 l’accesso ai grandi mezzi di comunicazione non era facile come adesso. Certo, un tempo lo schema era “Davide contro Golia”. Il referendum come sasso lanciato dalla fionda del piccolo partito per colpire il gigante-Dc. Oggi questa fionda è brandita dal più grande partito di governo, il Partito Democratico, e questa è la contraddizione principe, quella che per Marco Revelli rappresenta il passaggio al “populismo di governo”: una battaglia politica portata avanti dal Presidente del Consiglio che diventa un voto sul Presidente del Consiglio. Il gigante che prende la fionda e però rischia di tirarsi il sasso addosso. Per fortuna che il 4 dicembre sta arrivando, che qui di sassi se ne vedono sempre di più e ormai vengono lanciati a vista.

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