Qual è il futuro del conflitto in Siria? | Rolling Stone Italia
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Qual è il futuro del conflitto in Siria?

I rapporti di forza nella zona stanno cambiando, e dall'elezione di Trump il destino dell'area diventa ancora più incerto. Ne abbiamo parlato con Silvia Colombo, membro del consiglio direttivo dell’Istituto Affari Internazionali

Un ospedale pediatrico di Medici Senza Frontiere, distrutto -Foto di Medici Senza Frontiere

Un ospedale pediatrico di Medici Senza Frontiere, distrutto -Foto di Medici Senza Frontiere

Abbiamo parlato con Silvia Colombo, membro del consiglio direttivo dell’Istituto Affari Internazionali, un’associazione culturale che si occupa – attraverso ricerche e pubblicazioni – di promuovere la conoscenza dei diversi scenari di crisi. L’IAI è stato fondato nel 1965 da uno dei “padri” del (quasi infranto) sogno europeo, Altiero Spinelli, e Silvia si occupa, in maniera onesta, sensibile e attenta all’area del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Puoi parlarci in generale dei mutamenti avvenuti nel bacino del Mediterraneo in questi ultimi 5 anni, diciamo dalla “fine” delle Primavere Arabe ad oggi?
Il periodo che va dal 2011 a oggi è stato un susseguirsi di eventi e momenti molto significativi per lo sviluppo, soprattutto politico, dei paesi nordafricani e mediorientali. Sicuramente la stagione delle cosiddette Primavere Arabe ha lasciato un segno indelebile nella regione, anche se è necessario analizzarne l’impatto nel breve-medio termine isolando casi specifici. Se parliamo dal punto di vista della prospettiva regionale, è evidente che il Nord Africa e il Medio Oriente appaiano oggi più problematici di quanto non lo fossero cinque o sei anni fa. Lo scoppio e l’alimentarsi dei conflitti in Libia, Siria e Yemen stanno destabilizzando l’intera regione con forti ripercussioni anche sull’Europa, come dimostrato dalla crisi dei rifugiati, e sulle relazioni transatlantiche tra Stati Uniti e Russia.

Tuttavia, non è possibile comprendere appieno la portata degli eventi di questi ultimi anni se non soffermandosi sui singoli paesi della regione che appaiono oggi caratterizzati da traiettorie di sviluppo molto diversificate. In questo senso, il caso della Tunisia – con le speranze accese dal buon andamento della transizione del paese verso la democrazia – può essere ricordato come un esempio virtuoso nel panorama regionale. I conflitti mediorientali, quello siriano in primis, sono stati invece fortemente influenzati dal crescente intervento, diretto o indiretto, in essi da parte di attori regionali, quali i paesi della penisola araba del Golfo (Arabia Saudita, Qatar) o l’Iran, e attori internazionali, in particolare la Russia. Un terzo elemento fondamentale da ricordare è che le azioni di tali attori regionali hanno spesso sfruttato i conflitti locali nei paesi mediorientali per raggiungere i proprio interessi. In quest’ottica è stato fatto largo uso dell’arma del settarismo, ovvero del contrasto religioso – ma in realtà fortemente politicizzato – tra Sunniti e Sciiti. Infine, l’emergere del cosiddetto Stato Islamico in Siria-Iraq, ma anche in Libia, rappresenta una conseguenza dell’instabilità locale ma allo stesso tempo ha aperto le porte a ulteriore violenza e instabilità nella regione.

Dopo le elezioni americane, è il momento giusto per fare delle valutazioni: qual é stato l’errore o la mancanza più grande riguardo al Medio Oriente dell’amministrazione Obama?
L’Amministrazione Obama ha sicuramente segnato una svolta rispetto all’era di George W. Bush e degli interventi militari in Afghanistan e Iraq, inaugurando una fase più pragmatica e decisamente meno interventista nella regione mediorientale. Tale approccio ha avuto un certo successo durante il primo mandato di Obama ma è entrato in crisi – con evidenti scontri interni tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato – a partire dal 2012-2013 in poi, ossia in concomitanza con l’acutizzarsi del conflitto in Siria. La gestione di tale conflitto è stata la mancanza più evidente dell’Amministrazione riguardo al Medio Oriente. Il fatto di aver indicato l’utilizzo di armi chimiche in Siria come una ‘red line’ (la linea rossa, il confine invalicabile) il cui superamento nell’agosto 2013 tuttavia non ha provocato alcuna reazione da parte di Washington ha contribuito a far crollare il castello di carta costruito da Obama e lo ha esposto a numerose critiche da parte di studiosi e attivisti. Tale inazione ha portato anche alla sottovalutazione delle reali intenzioni e delle capacità della Russia di sostenere l’alleato Bashar al-Asad in Siria.

E oggi, cosa cambierà con Trump? Quali le tre possibili mosse nell’area del Mediterraneo e Medio Oriente della nuova amministrazione USA?
Quello che sappiamo e ciò che è emerso in queste prime settimane dalle elezioni dell’8 novembre è che la conoscenza del neo-Presidente delle dinamiche profonde di questa regione così complessa è estremamente limitata e superficiale. Trump ha lodato e ringraziato il sostegno di personalità quali Erdogan o Al-Sisi – chiaramente non due figure democratiche sullo scacchiere regionale –; bisognerà vedere come il rapporto bilaterale tra gli USA e alcuni pilastri chiave a livello regionale – Turchia, Egitto, ma anche Arabia Saudita – andrà evolvendosi.

Altro punto a cui prestare attenzione sarà sicuramente la relazione con Israele. Su questo versante non ci si attende un grande cambiamento rispetto alle relazioni strette che hanno da sempre caratterizzato Tel Aviv e Washington a vari livelli (politico, diplomatico, militare, ecc.), nel caso di Trump ulteriormente rafforzate da simpatie personali tra il neo-Presidente e Netanyahu (a differenza di quanto successo con Obama). Le stesse simpatie personali appiano giocare un ruolo centrale anche nel futuro delle relazioni transatlantiche. Le tensioni tra Washington e Mosca potrebbero presto essere soltanto un lontano ricordo, con la prima arroccata su posizioni sempre più isolazioniste in politica estera e la seconda, invece, ben posizionata per giocare un ruolo chiave sullo scacchiere mediorientale. La Siria, dove il conflitto dura da più di cinque anni, rischia di divenire la prima ‘vittima sacrificale’ di un possibile accordo transatlantico sul Medio Oriente incentrato sulla lotta al terrorismo.

L’ISIS è in crisi sul terreno, sia a livello militare che amministrativo, è vero che la next big thing salafita è la formazione Jaish Fatah al-Sham? Saranno loro il prossimo fattore nella regione – insomma, morto un Califfo, ne nascerà un altro?
In realtà, vi è di fatto una sorta di divisione in sfere d’influenza territoriali tra l’ISIS e Jaish Fatah al-Sham (precedentemente noto con il nome di Jabhat al-Nusra) in Siria. La frammentazione del panorama jihadista locale non ha favorito la nascita di un’opposizione moderata solida. Gli attori in campo sono numerosi (opposizioni, regime di Bashar al-Assad, milizie jihadiste) e i rapporti reciproci intricati. Mentre il regime, con il sostegno della Russia, dichiara di essere impegnato nella lotta contro il terrorismo di matrice jihadista e sebbene si inizi effettivamente a parlare di un arretramento dell’ISIS in Siria (e in Iraq), principalmente grazie all’azione della coalizione occidentale, resta il problema di Jaish Fatah al-Sham, il quale gode di buona popolarità presso la popolazione civile. L’Amministrazione americana, nel passaggio cruciale tra Obama e Trump, sembra avviata verso una posizione dura nei suoi confronti nel tentativo di separare gli elementi moderati da quelli più radicali. Tuttavia, la strategia attraverso la quale ciò avverrà avrà molto peso nel dare alla (nuova) leadership americana la possibilità di contribuire maggiormente rispetto che in passato alla soluzione della crisi siriana.

Infine, quali sono i 3 possibili nodi politici dai quali partire per ragionare su una “road map” che porti ad una soluzione per la Siria evitando nascite di nuovi Califfati o Emiri?
In questo senso, una strategia militare di contrasto al terrorismo deve necessariamente essere accompagnata dal rafforzamento del processo negoziale, lasciando tuttavia alle parti siriane in causa la possibilità di giocare un ruolo maggiore, invece che renderle ostaggio di rivalità regionali e internazionali. Non è possibile pensare di affrontare il problema del terrorismo senza risolvere alla radice i nodi politici che alimentano il terrorismo stesso. Per quanto il fallimento di questi anni mostri che la strada della diplomazia è lunga e complessa, è imprescindibile affrontare la questione della futura transizione politica nel paese. In quest’ottica, i tre nodi politici da porre al centro dei negoziati sono 1) la tempistica e la sostanza del processo quanto a partecipazione, ruolo dell’attuale regime, scadenze elettorali; 2) la governance politica ed economica dei territori sotto diversa gestione (soprattutto nel caso di quelli controllati dall’ISIS e da Jaish Fatah al-Sham) durante il periodo di transizione; e 3) il lancio di un processo di riconciliazione nazionale e di ricostruzione del tessuto sociale, tenuto conto dell’elevato numero di sfollati interni e di rifugiati nei paesi limitrofi e in Europa.

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