Wild Beasts – Boy King | Rolling Stone Italia
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Wild Beasts – Boy King

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Quando gli inglesi Wild Beasts sono entrati in studio per registrare Boy King, avevano le idee piuttosto chiare. Hayden Thorpe, il cantante, voleva “una combinazione tra il pop-soul di Justin Timberlake, e l’asprezza industriale dei Nine Inch Nails”. Era già un obiettivo ambizioso, che la rivalità tra Thorpe e Tom Fleming, il chitarrista, ha portato addirittura oltre: «Tom arrivava in studio prima di tutti con una Jackson bianca da metallaro, e iniziava a pestare», dice Thorpe, «sopra quello che, per me, era sostanzialmente un album soul». Un po’ di competizione dentro una band è (quasi) sempre una cosa positiva, ed è proprio quello che è successo con Boy King, a oggi probabilmente il disco più diretto dei Wild Beasts. La formula è semplice: melodie sensuali, chitarre avvolgenti, una sezione ritmica compatta. I falsetti di Thorpe sono finalmente limitati, e l’effetto è un disco senza pezzi interlocutori, anche grazie alla produzione cruda del texano John Congleton. Il tono virile di Boy King è assecondato dai testi, che a partire dal singolo Get My Bang, passando per gli ancora più aggressivi Tough Guy e Big Cat, diventa una riflessione sulla condizione del maschio di oggi, che, consapevole della propria decadenza, decide di ostentare il proprio potere represso. La chiusa di Dreamliner è l’unico momento in cui questo maschione in libera uscita si ferma a riflettere sulla propria vulnerabilità, e abbassa un po’ i toni. Intuendo forse che, tra sesso e morte, il passo non è così lungo come credeva.

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Quando gli inglesi Wild Beasts sono entrati in studio per registrare Boy King, avevano le idee piuttosto chiare. Hayden Thorpe, il cantante, voleva “una combinazione tra il pop-soul di Justin Timberlake, e l’asprezza industriale dei Nine Inch Nails”. Era già un obiettivo ambizioso, che la rivalità tra Thorpe e Tom Fleming, il chitarrista, ha portato addirittura oltre: «Tom arrivava in studio prima di tutti con una Jackson bianca da metallaro, e iniziava a pestare», dice Thorpe, «sopra quello che, per me, era sostanzialmente un album soul». Un po’ di competizione dentro una band è (quasi) sempre una cosa positiva, ed è proprio quello che è successo con Boy King, a oggi probabilmente il disco più diretto dei Wild Beasts. La formula è semplice: melodie sensuali, chitarre avvolgenti, una sezione ritmica compatta. I falsetti di Thorpe sono finalmente limitati, e l’effetto è un disco senza pezzi interlocutori, anche grazie alla produzione cruda del texano John Congleton. Il tono virile di Boy King è assecondato dai testi, che a partire dal singolo Get My Bang, passando per gli ancora più aggressivi Tough Guy e Big Cat, diventa una riflessione sulla condizione del maschio di oggi, che, consapevole della propria decadenza, decide di ostentare il proprio potere represso. La chiusa di Dreamliner è l’unico momento in cui questo maschione in libera uscita si ferma a riflettere sulla propria vulnerabilità, e abbassa un po’ i toni. Intuendo forse che, tra sesso e morte, il passo non è così lungo come credeva.

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