‘Too Old to Die Young’, solo Dio può perdonare questa follia di Winding Refn | Rolling Stone Italia
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‘Too Old to Die Young’, solo Dio può perdonare questa follia di Winding Refn

13 ore di anti-eroi stoici e angeli vendicatori non è tv: è la peggiore introduzione possibile al mondo al neon del regista

Miles Teller in 'Too Old to Die Young'

Foto: Scott Garfield/Amazon

Qual è il vostro film preferito di Nicolas Winding Refn?

Speriamo che la maggior parte delle persone si stia approcciando a Too Old to Die Young, la serie televisiva fottutamente pulp del regista danese per Amazon Prime Video, in quanto fan o qualcosa di simile. O, per lo meno, come spettatori semi-consapevoli della sua filmografia. In bocca al lupo nel caso invece questo sia il vostro debutto nel mondo di Refn – è la peggiore introduzione possibile al suo marchio di fabbrica di noir al neon stilizzato e sotto steroidi, o la “migliore” introduzione nel peggiore dei modi possibili. Buona fortuna a chiunque sia caduto nel suo paesaggio di anti eroi stoici, violenza e ritmo lento e doloroso come la tortura dell’acqua senza una mappa.

Ma torniamo alla domanda iniziale: il vostro film preferito fa parte della trilogia di Pusher, il racconto in tre parti e a tre prospettive, che ha contribuito a lanciare Refn a livello internazionale e ha introdotto il futuro criminale Hannibal Lecter / cattivo di Bond / Mads Mikkelsen nel mondo? Oppure è Bronson, biopic incredibilmente brillante del condannato britannico Charles Bronson che vede Tom Hardy raggiungere i livelli di teatralità del kabuki? Con tutta probabilità è Drive, il riff stellare guidato da Ryan Gosling sugli autisti per la fuga; quasi sicuramente non è il film successivo del duo, Solo Dio perdona (anche se questo thriller ambientato in Thailandia è migliore di quanto la sua reputazione suggerisca). O forse è The Neon Demon, il suo benvenuto all’Inferno, una parabola sulle modelle che si mangiano da sole.

Ok, ora immaginate che il vostro film preferito duri 13 ore. Con la stessa trama però. Potrebbe essere diviso in narrazioni parallele, forse qualche deviazione extra qua e là. Ma lo stesso materiale narrativo di base. Stiracchiato. Su. 13. Ore.

A meno che non ti chiami Ken Burns o David Lynch, forse devi pensare bene se quel tempo, suddiviso in più di 10 puntate con una durata media di un’ora e 15 minuti, sia una necessità o semplicemente un’indulgenza. (Alcuni episodi durano fino a 90 minuti, l’ultimo una mezz’ora, chiamatelo coda). Specialmente se il motivo principale per lavorare a un prodotto serializzato più lungo è: “Sembra che tutti stiano facendo roba in streaming, dovrei farlo anch’io!”. Questa è stata più o meno la scusa che Refn ha accampato a Cannes, dove ha mostrato due episodi centrali, per dare uno sguardo esteso ed esistenziale sia nell’abisso che nel proprio ombelico, dove ci sono poliziotti, truffatori, cartelli e modi creativi di torturare forme di vita basate sul carbonio. Ha anche detto che questa non era tv – un mezzo che definisce “tutto reality show e notizie” – ma un lunghissimo film. Ovvio. Certo, sua maestà. La sensazione di guardare qualcosa di un autore che in qualche modo crede virtualmente di abbassare i propri standard proviene dal tuo schermo.

Cosa dipinge il nostro uomo su questa grande tela? Iniziamo con un poliziotto di nome Martin (Miles Teller), un tipo forte e silenzioso che suggerisce un blocco da sofferenza post-traumatica o una lavagna intenzionalmente vuota. Il suo partner (Lance Gross) ha la capacità di trasformare un controllo del traffico di routine in una situazione alla Cattivo tenente in un batter d’occhio. In ogni caso è sorprendente quando qualcuno si avvicina semplicemente a lui e gli spara una pallottola in testa. La tragedia fa guadagnare a Martin una promozione a detective, ma non la libertà da un gangster locale (Babs Olusanmokun), che lo costringe a ricoprire il ruolo del suo defunto partner come sicario. Né vi impedisce di essere scettici sul fatto che il protagonista frequenti una studentessa delle superiori di 17 anni (Nell Tiger Free).

Seguiamo poi chi ha sparato, Jesus (Augusto Aguilera), a sud del confine. Il poliziotto aveva ucciso sua madre, una famigerata signora della droga. Suo zio (Emiliano Díez) lo accoglie e lo introduce al cartello. Quando c’è uno slittamento di potere, Jesus e la pupilla del vecchio – una giovane di nome Yaritza (Cristina Rodlo) che ha salvato dal deserto e cresciuto come sua figlia, non senza alcune implicazioni spiacevoli – sono sposati. La coppia viene quindi mandata in America, con l’intenzione di proteggere gli interessi dell’organizzazione. Ci sono anche questioni incompiute riguardo a quell’omicidio per vendetta. Ci sono sempre. Ah, abbiamo detto che Yaritza potrebbe essere l’incarnazione di un’antica leggenda folcloristica / pilastro dei tarocchi conosciuta come l’Alta Sacerdotessa della Morte?

Altri personaggi vengono buttati nella mischia, in particolare un ex agente dell’FBI con un occhio solo (John Hawkes di Deadwood) che diventa mentore di Martin e una guaritrice New Age (Jena Malone) che assume l’ex federale per dare la caccia a criminali sessuali particolarmente efferati. Ci sono anche magnati fissati con il rape-porn, pedofili, tossici, casi di molestie da studio del #MeToo, più controfigure di Trump di quante non ne riescano a far entrare in una registrazione di Access Hollywood e, qua e là, solo ordinari stronzi. In altre parole, un sacco di mascolinità tossica – e il punto è questo. La galleria di parassiti della malavita, molestatori seriali di bambini e misogini violenti che Refn e il suo co-creatore, il fumettista fuoriclasse Ed Brubaker, hanno inventato non rappresentano solo il peggio di quella società quanto della Società del 2019, un “chi è chi” quotidiano di degenerati e miserabili. E come per il mondo in cui viviamo, molto di ciò si riduce al male che fanno gli uomini. ‘Bravi ragazzi’ qui è un ossimoro.

Ci vorrà un angelo della morte per ripulire il mondo dai maschi abusivi, ed è per questo che la serie e l’attenzione continuano a tornare a Yaritza. È il veicolo per le inclinazioni più soprannaturali e surreali del regista, che sono cresciute dai tempi di Solo Dio perdona e la sua decisione che preferirebbe essere una nuova versione di Alejandro Jodorowsky piuttosto che un povero Michael Mann. Aiuta anche che a interpretare Yaritza sia Rodlo, un’attrice che sa come tenere uno schermo, indipendentemente dalle dimensioni. È una grande osservatrice con un occhio killer per i dettagli, un’artista che sa come far sì che la calma e il tocco minimalista contino in un pasticcio splatter massimalista. Va da sé che Refn, un cineasta che non ha mai incontrato una luce colorata che non abbia amato biblicamente, e il leggendario direttore della fotografia Darius Khondji (La città perduta, Seven) immergono tutto in colori allucinogeni, ombre da notte oscurissima e atmosfera infernale da night club. Vale anche la pena sottolineare che il personaggio di Rodlo è l’unico che sembra davvero adatto al tono e alla visione dello show; nemmeno Teller, che offre la migliore imitazione di un Robert Mitchum del XXI secolo, può sincronizzare il piglio alla Raymond Chandler del suo protagonista alla narrazione. Un giorno, qualcuno realizzerà un super-montaggio delle scene di Rodlo e ci regalerà un incubo cromosomico XY di tre ore.

Nel frattempo, abbiamo questa lagna zoppicante e sgraziata che non giustifica la sua durata da maratona come qualcosa di più di una follia autocompiaciuta e durissima senza giustificazioni. Naturalmente puoi trasformare una crime story pulp in qualcosa di immoralmente magnifico dal punto di vista visivo, ammucchiando varie cose, dal costume da narco chic agli schemi visivi della Pop Art. Puoi dare al tuo gangster un tocco di stranezza facendolo diventare un fanatico dello ska vintage e puoi inscenare un inseguimento in auto ridicolmente lungo sulle note di Mandy di Barry Manilow, l’action-flick dito medio del giorno. Puoi ingaggiare Morgan Fairchild come White Privilege e dare a William Baldwin un pasto da sette portate da masticare, completo di mosse onanistiche di potere. Puoi usare l’immaginario misogino in nome dell’innalzamento della vendetta e dell’empowerment femminile, anche se ogni singola persona sulla faccia della terra vorrebbe davvero che non lo facessi. Puoi perfino usare la violenza estrema come esercizio di carneficina feticizzata. Chi non ama un cinemassacro ben fatto? O guardare un Nazista farsi sparare nel cazzo?

Ma quando ti viene data la possibilità di impegnarti in uno storytelling di lunga durata e lo traduci nel nulla, in scene che si estendano all’infinito semplicemente perché puoi farlo, o scambi il concetto di lentezza al cinema con quello di istantanea profondità, o non riesci a capire che forse “meno è meglio” quando si tratta della tua estetica art-to-grindhouse, potresti essere chiamato a risponderne. Refn ha ragione: questa non è tv. È auto-parodia. E non ci vuole una mezza giornata di visione per capire che forse stiamo diventando troppo vecchi per questa merda.

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