The Rolling Stones - Blue & Lonesome | Rolling Stone Italia
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The Rolling Stones – Blue & Lonesome

Leggi la recensione del nuovo disco degli Stones su Rollingstone.it

La cosa sorprendente è il suono. Perché sapevamo che i Rolling Stones sono diventati capaci (in quanto creatori della storia del rock), di viaggiare nel tempo, andando avanti e indietro, per reinterpretare diverse versioni di sé. Ma che fossero diventati capaci di controllare anche la materia e portarsi dietro anche il suono, questo no, non lo sapevamo. Blue & Lonesome è l’album del ritorno alle origini, l’omaggio degli Stones alle propria radici, a quegli anni 1962-1963 in cui Keith Richards, Mick Jagger e Brian Jones vivevano insieme in un appartamento incasinato di Edith Grove, Chelsea, pieno di bottiglie vuote e dischi di Willie Dixon, Little Walter, Howlin’ Wolf ed Eddie Taylor, oltre naturalmente al 45 giri di Rollin’ Stone di Muddy Waters, quello che Brian Jones ha preso in mano al volo, quando un promoter al telefono gli ha chiesto il nome della band e ha risposto: «I Rolling Stones». Sono anche gli anni di Richmond ed Eel Pie Island, due punti qualsiasi sulla mappa del sud di Londra, che diventano coordinate del mito grazie al Club Crawdaddy (dove hanno esordito prima loro e poi gli Yardbirds) e a quella isoletta sul Tamigi trasformata nel paradiso perduto della prima generazione rock in cui gli Stones fanno tredici concerti nel 1963.Il viaggio nel tempo fino a una lontana versione di sé che dimostra di essere sempre presente è stato costruito nei minimi dettagli: gli Stones sono andati nei British Grove Studios costruiti da Mark Knopfler come “monumento al passato e al futuro della tecnologia”, hanno chiamato il produttore Don Was ed Eric Clapton, che stava registrando I Still Do nella sala a fianco, e in tre giorni hanno registrato 45 minuti di purismo blues scegliendo 12 di quelle canzoni sparse sul pavimento di Edith Grove oltre 50 anni fa. Il suono, si diceva, è la cosa più sorprendente. Sembra arrivare da un’altra epoca eppure è incredibilmente presente, sfacciatamente inesorabile, come se non ci fosse nient’altro di così importante nella musica di oggi. La voce impeccabile e potente di un Mick Jagger francamente irreale, l’attacco combinato rullata-riff di Charlie Watts e Keith Richards in Commit a Crime di Howlin Wolf’, gli assoli di armonica di All of Your Love, il tocco sinuoso e poi graffiante di Ron Wood in Ride ‘Em On Down di Eddie Taylor, l’entrata maestosa di Clapton con una nota sola riconoscibile all’infinito in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor. Questo disco è allo stesso tempo un prodotto della tecnica e dell’istinto; Keith ha sempre detto che il “rock” non può prescindere dal “roll”, il suo elemento nero, sennò diventa una marcetta. Per questo gli Stones mettono in mostra la loro spaventosa conoscenza di tutti gli elementi e di ogni variazione della frequenza del blues (dall’elettrico-scintillante di Chicago al caldo-sporco del Sud) e lo ricostruiscono inserendo un elemento che è solo loro: la capacità di trascendere i confini sociali e culturali in cui questa musica è nata e renderli universali, chiudendo il cerchio e riconnettendoci a distanza di decenni e in un contesto totalmente diverso a quel ritmo primigenio e viscerale. Gli Stones hanno tolto al blues il dolore, la povertà e l’emarginazione che erano l’origine di quella musica, e l’hanno trasformato in uno strumento di affermazione di sé, nella celebrazione di una vita canaglia, spregiudicata e affascinante, la colonna sonora di quel mondo pieno di donne e sfrenatezza, in cui ci si drogava per vanità e non per disperazione, quel mondo che loro stessi hanno costruito intorno alla propria personalità. Muhammad Ali diceva: «I bianchi non potranno mai capire il blues, le loro donne non li abbandonano perché sono poveri». Gli Stones non solo hanno capito il blues, ma l’hanno piegato alla propria volontà, trasformandolo nel suono con cui celebrano sé stessi. E con questo disco ci dicono una cosa, in fondo molto semplice: la gioventù è stata un periodo intenso per tutti, ma forse per loro lo è stato di più.

Questa recensione è stata pubblicata su Rolling Stone di dicembre. Puoi leggere l'edizione digitale della rivista cliccando sulle icone che trovi qui sotto.
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La cosa sorprendente è il suono. Perché sapevamo che i Rolling Stones sono diventati capaci (in quanto creatori della storia del rock), di viaggiare nel tempo, andando avanti e indietro, per reinterpretare diverse versioni di sé. Ma che fossero diventati capaci di controllare anche la materia e portarsi dietro anche il suono, questo no, non lo sapevamo.
Blue & Lonesome è l’album del ritorno alle origini, l’omaggio degli Stones alle propria radici, a quegli anni 1962-1963 in cui Keith Richards, Mick Jagger e Brian Jones vivevano insieme in un appartamento incasinato di Edith Grove, Chelsea, pieno di bottiglie vuote e dischi di Willie Dixon, Little Walter, Howlin’ Wolf ed Eddie Taylor, oltre naturalmente al 45 giri di Rollin’ Stone di Muddy Waters, quello che Brian Jones ha preso in mano al volo, quando un promoter al telefono gli ha chiesto il nome della band e ha risposto: «I Rolling Stones».
Sono anche gli anni di Richmond ed Eel Pie Island, due punti qualsiasi sulla mappa del sud di Londra, che diventano coordinate del mito grazie al Club Crawdaddy (dove hanno esordito prima loro e poi gli Yardbirds) e a quella isoletta sul Tamigi trasformata nel paradiso perduto della prima generazione rock in cui gli Stones fanno tredici concerti nel 1963.

Il viaggio nel tempo fino a una lontana versione di sé che dimostra di essere sempre presente è stato costruito nei minimi dettagli: gli Stones sono andati nei British Grove Studios costruiti da Mark Knopfler come “monumento al passato e al futuro della tecnologia”, hanno chiamato il produttore Don Was ed Eric Clapton, che stava registrando I Still Do nella sala a fianco, e in tre giorni hanno registrato 45 minuti di purismo blues scegliendo 12 di quelle canzoni sparse sul pavimento di Edith Grove oltre 50 anni fa. Il suono, si diceva, è la cosa più sorprendente. Sembra arrivare da un’altra epoca eppure è incredibilmente presente, sfacciatamente inesorabile, come se non ci fosse nient’altro di così importante nella musica di oggi. La voce impeccabile e potente di un Mick Jagger francamente irreale, l’attacco combinato rullata-riff di Charlie Watts e Keith Richards in Commit a Crime di Howlin Wolf’, gli assoli di armonica di All of Your Love, il tocco sinuoso e poi graffiante di Ron Wood in Ride ‘Em On Down di Eddie Taylor, l’entrata maestosa di Clapton con una nota sola riconoscibile all’infinito in Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor. Questo disco è allo stesso tempo un prodotto della tecnica e dell’istinto; Keith ha sempre detto che il “rock” non può prescindere dal “roll”, il suo elemento nero, sennò diventa una marcetta. Per questo gli Stones mettono in mostra la loro spaventosa conoscenza di tutti gli elementi e di ogni variazione della frequenza del blues (dall’elettrico-scintillante di Chicago al caldo-sporco del Sud) e lo ricostruiscono inserendo un elemento che è solo loro: la capacità di trascendere i confini sociali e culturali in cui questa musica è nata e renderli universali, chiudendo il cerchio e riconnettendoci a distanza di decenni e in un contesto totalmente diverso a quel ritmo primigenio e viscerale. Gli Stones hanno tolto al blues il dolore, la povertà e l’emarginazione che erano l’origine di quella musica, e l’hanno trasformato in uno strumento di affermazione di sé, nella celebrazione di una vita canaglia, spregiudicata e affascinante, la colonna sonora di quel mondo pieno di donne e sfrenatezza, in cui ci si drogava per vanità e non per disperazione, quel mondo che loro stessi hanno costruito intorno alla propria personalità.
Muhammad Ali diceva: «I bianchi non potranno mai capire il blues, le loro donne non li abbandonano perché sono poveri». Gli Stones non solo hanno capito il blues, ma l’hanno piegato alla propria volontà, trasformandolo nel suono con cui celebrano sé stessi. E con questo disco ci dicono una cosa, in fondo molto semplice: la gioventù è stata un periodo intenso per tutti, ma forse per loro lo è stato di più.

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