'The Party', la recensione | Rolling Stone Italia
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The Party, alla fine la domanda è sempre la stessa: siamo uomini o topi?

Una satira sociale elegante e spiazzante, la tragicomica discesa agli inferi di chi ha sempre finto di essere felice e realizzato.

I’m a Man di Bo Diddley, What Is This Thing Called Love di Sidney Bechet e poi la trascinante e divertente Candela, dal repertorio del Buena Vista Social Club.

È la colonna sonora, rigorosamente diegetica (Timothy Spall combatte la propria apatica sofferenza con la sua radio), a dirci cos’è The Party: un dramma borghese sulla disfatta maschile nella modernità.

Ganz, Murphy e Spall sono degli sconfitti, di fronte a donne con contraddizioni e caratteri troppo forti per non rimanerne succubi – che brave Scott Thomas e Clarkson, ottime anche Jones e Mortimer. È una satira sociale elegante e spiazzante, la tragicomica discesa agli inferi di chi ha sempre finto di essere felice e realizzato.

Sally Potter abbandona la sua britannica ossessione per la Seconda Guerra Mondiale e ci offre un racconto di impianto teatrale – persino troppo, a volte -, in cui i dialoghi raffinati e le prove degli attori puntellano una regia essenziale e una fotografia in bianco e nero, che all’inizio appare forzata, e alla fine senti addosso come un vestito su misura.

Rispetto ai drammi da camera scandinavi, a cui somiglia, la Potter si diverte a spogliare delle loro ipocrisie e dei loro riti questi benpensanti benestanti, lasciandoli alla mercé dei loro grotteschi sentimenti, delle loro ridicole paure.

Alla fine la domanda è sempre la stessa: siamo uomini o topi? Quelli persi in piani sconclusionati e nelle vite sbagliate di Robert Burns (citati da Steinbeck nella sua opera più bella), o solo gli spensierati protagonisti di Candela.