'The Cloverfield Paradox', la recensione | Rolling Stone Italia
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‘The Cloverfield Paradox’: il paradosso di Netflix

In questo paese in cui le strategie distributive dell’audiovisivo per la loro modernità e agilità fanno sembrare Sanremo un festival punk, sono tutti sconvolti dal fatto che non sia stata fatta una robusta promozione del film.

Confessiamolo: il paradosso di Cloverfield, come tutte le teorie su universi e dimensioni parallele, abbiamo solo fatto finta di capirlo. Dai tempi di Asimov la fisica e la meccanica quantistica la assimiliamo con quell’approccio fideistico con cui abbiamo provato a comprendere le diagnosi dei medici di E.R. o del dottor House.

Detto questo, è il paradosso di Netflix che sembra davvero non volerlo capire nessuno. In questo paese in cui le strategie distributive dell’audiovisivo per la loro modernità e agilità fanno sembrare Sanremo un festival punk, sono tutti sconvolti dal fatto che Paramount e Netflix non abbiano fatto una robusta promozione di uno dei titoli cinematografici in esclusiva sulla piattaforma di streaming più importanti del proprio listino.

E sì, perché in effetti annunciare l’immediata messa in onda durante il Super Bowl, che dall’anno scorso è l’evento più seguito in streaming del pianeta (nel 2017 arrivò, grazie alla crescita record degli spettatori on line, a 114 milioni di spettatori, un record) e tra i più importanti appuntamenti televisivi mondiali, non è una mossa da cintura nera di marketing. Per intenderci, la puntata di This is Us, Super Bowl Sunday, trasmessa dalla NBC dopo il match ha raggiunto picchi che negli ultimi 13 anni hanno toccato solo House e i ragazzi di E.R.: il primo dopo il Super Bowl 2008, il secondo dopo il gran finale di Friends. Certo, potevano promuoverlo meglio: si poteva sbarcare sulla Luna e costringere l’astronauta a dire “The Cloverfield Paradox è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per Netflix”. Oppure il trailer poteva andare nell’intervallo della finale di Champions League, magari giocata durante la notte degli Oscar.

Però in Italia, dove ancora non ci siamo abituati al fatto che Netflix sia un fenomeno globale e che giochi un altro sport, ci diciamo sicuri che “ti pare che se era bello lo facevano uscire alla chetichella così”. Si chiama strategia: meglio l’effetto sorpresa in un happening mondiale che le 60 righe su qualche giornale che nessuno legge più. E per la Paramount, che non sta facendo incassi clamorosi ultimamente, meglio essere visti tanto in streaming che poco in sala, soprattutto se non si ha un cast con grandi star e un prodotto a suo modo sperimentale. Sarebbe bello uscire dai nostri schemi più polverosi, ma in fondo perché: niente modernità, nessun cambiamento, siamo italiani.

Detto questo, The Cloverfield Paradox è un’onesta opera di intrattenimento, con un finale piuttosto cialtrone e una scrittura eccessivamente lineare – alla fine metti un gruppo in uno spazio ristretto e Darwin farà sempre il suo lavoro, soprattutto se due dimensioni spaziotemporali entrano in collisione -, capace di tenerti 100 minuti e spicci attaccato allo schermo con buon ritmo.

La Bad Robot e J.J. Abrams ripescano Gugu Mbatha-Raw dalla sottovalutata e sfortunata serie Undercovers per consegnarle il ruolo di protagonista di The Cloverfield Paradox, buon regalo per il giovane cineasta Julius Onah, nigeriano-americano che non lesina belle idee e ha pure ottimi agganci (anche grazie al progetto Open Continents). Mette su un cast di facce giuste e punta su un Daniel Brühl che continua a essere il meno carismatico dei protagonisti o il più carismatico dei comprimari, deve ancora deciderlo. Abrams e soci al regista e al film danno anche la parola Cloverfield, un brand che attira l’attenzione e pure qualche delusione da parte di chi si aspettava un maggiore legame con i primi due capitoli. E che magari fosse pure alla loro altezza: il primo Cloverfield, dieci anni fa, riuscì forse per primo a rendere in modo potente e lacerante la tragedia dell’immaginario post 11 settembre, la paura della distruzione senza senso né motivi, la fuga da qualcosa di troppo grande da capire o forse solo metabolizzare.

10 Cloverfield Lane fu un’evoluzione di quel disaster movie, un thriller che trasferiva su uno script complesso e affascinante le nostre paranoie, il nostro isolamento, la nostra incapacità di avere una visione d’insieme. Qui, invece, siamo in presenza di un progetto che un tempo si chiamava La particella di Dio e che Cloverfield l’ha trovato dopo, quando si è intuita la possibilità di poterlo rendere una cornice furba e risolutiva degli altri due.

È bastato uno spot virale nella strategia marketing del secondo, l’immagine finale (da denuncia) e due spiegazioni un filo pesanti e la magia della saga, che risiedeva nell’inspiegabile e nella paura dell’ignoto, si perde a favore di un survival movie che non ha struttura – gli astronauti, tutti scienziati, hanno la capacità deduttiva di Harry di Derrick e così gli errori non diventano svolte di sceneggiatura, ma solo punteggiatura – ma ha scene affascinanti e ben girate. E soprattutto alcune ottime idee: dalla citazione di Alien al Risiko politico dei compagni di bordo fino al braccio che fa molto famiglia Addams (ottimo Chris O’Dowd), è difficile annoiarsi anche se poi nei momenti cruciali il film non ingrana. Vorrebbe provare a essere Life, The Cloverfield Paradox, forse persino Sunshine, ma finisce per assomigliare al più recente Passengers. Insomma, poteva andare peggio.