Rogue One: A Star Wars Story | Rolling Stone Italia
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Rogue One: A Star Wars Story

Leggi la recensione dello spin-off della saga di "Star Wars" su Rolling Stone.it

Sì. La forza è tornata: potente, epica, romantica, fresca, vibrante. Prima di ogni considerazione critica, prima di iniziare la recensione, ve lo dobbiamo: state tranquilli, non è come nella seconda e terza trilogia (che poi non è la seconda, ma non iniziamo con l’ordine cronologico degli episodi di Star Wars, serve un dottorato ora che sono arrivati anche gli spin-off): il passo falso, drammaticamente falso e disastroso, nel primo capitolo di Star Wars Anthology, Rogue One: A Star Wars Story, da oggi in 750 sale in Italia, non è arrivato. Pensavamo fosse ormai una regola quella del “cattiva la prima”: la minaccia fantasma ci aveva fatto piangere lacrime amare negli anni ’90; Il risveglio della forza di J.J. Abrams, l’anno scorso, ci aveva sconvolto scimmiottando il primo film della saga con spudorata e insopportabile civetteria e senza fascino; a voler essere sacrileghi, infine, forse Una nuova speranza, nella trilogia originale, era il “meno migliore”. Nel caso recente de Il risveglio della forza, ferita ancora aperta (è uscito solo un anno fa), la delusione era stata cocente, contando che il regista era quello che aveva rivitalizzato Star Trek - ma forse era proprio quello il problema - e che tutti noi lo attendevamo con ansia ed amore, potendo contare su personaggi e attori della prima trilogia. Che poi è la seconda, ma tanto lo sapete.Bene, è un pollice alzato, questo Rogue One: A Star Wars Story. E, ora possiamo confessarlo, non ci avremmo scommesso un euro. Perché il cast sembrava, sulla carta, confusionario e poco omogeneo, perché la trama trapelata non suggeriva chissà quali possibilità di realizzare, perché noi guerrestellarofili, diciamolo, siamo delle vestali gelose del Millennium Falcon e tutto il resto è noia. E la collocazione capitolo tra Episodio III ed Episodio IV era da allarme rosso. Eppure Gareth Edwards ha saputo fare breccia con la scelta più facile e allo stesso tempo complessa: prendere lo spirito di Star Wars e farlo proprio, senza farsi schiacciare dall’immaginario di Lucas, che è uomo di regia e di immaginazione, ma anche di marketing e dotato di un’indolenza artistica affascinante. Un po’ come accadde a Kershner, soprattutto, ma anche a Marquand negli anni ’80. Il cineasta britannico, già autore del geniale Monsters, non ha paura delle icone, degli universi cinematografici entrati nel mito, è uno che si è messo alla prova con Godzilla, per intenderci. E, diciamocelo, ha forse anche il compito leggermente facilitato dal fatto che questo è il primo di tre spin-off (della serie chiamata Star Wars Anthology, appunto), il che lo sgancia da una continuity forse troppo scomoda, ora, ma comunque legata all’universo che tanto ha cambiato il nostro immaginario fantascientifico.Eppure. Eppure si parte malissimo, con quel “tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana” che sembra scritto su un Commodore 64, con un font imbarazzante. E la partenza lenta – di sicuro il punto debole (o meglio meno forte) del lungometraggio – potrebbe farvi tremare i polsi e temere un altro disastro. Sbagliato. Il racconto è serrato, pieno del ritmo, dell’epica e della freschezza che sono parte integrante di Star Wars. Edwards ha il pregio di farle sue, di essere moderno non rinunciando a tornare indietro, persino quegli effetti visivi di cui è maestro li dosa con intelligenza e senza strafare, perché sa che al di là della filologia, è necessario restituire al pubblico il profumo dei primi film senza esserne schiavi.Azzeccato il cast: Felicity Jones ha la forza, nel vero senso della parola, per essere protagonista, nel modo in cui sapeva farlo Hamill, da spalla di un gruppo, capace di essere centrale ma non invadente. Ed è pure antipatica il giusto (confessiamolo: Luke era molto meno simpatico di Han). Diego Luna, da cavalier servente funziona, Mads Mikkelsen si fa vedere il giusto per essere credibile. I comprimari funzionano, compresi i non umani: K-2S0 sana il dramma dei robot senza carisma degli ultimi film. Non era una passeggiata: bisognava fare Star Wars senza cavalieri Jedi - oddio, uno c’è, ma non si sente tanto bene, un altro viene solo citato -, senza spade laser (ne vedrete una sola), con pochissimo Darth Vader (attenzione, la scena più interessante è un suo vedo non vedo senza armatura), ma dopo il Kylo Ren de Il risveglio della forza meglio così.E non è escluso che sia anche questo ad aver liberato la fantasia, a dare potere a ciò che ha fatto della saga un successo planetario: quell’inspiegabile alchimia tra storia e pubblico, con un grado di coinvolgimento simile a quello delle tragedie greche dell’antichità, a cui Lucas ha confessato più volte di dovere molto. Qui è costruita con gli elementi cardine della prima trilogia: la ribellione al male, la Morte Nera, il romanzo di formazione dell’orfano, con Davide e Golia in lotta, aiutati da un Ulisse pronto a sistemare il suo cavallo di Troia dove nessuno può sospettare che sia.Ma non basta: perché dopo l’inizio diesel, il film decolla e accelera, salta nell’iperspazio e ti trascina con lui: non sbaglia un’inquadratura, si lascia dietro i personaggi meno riusciti (il ribelle estremista Saw Gerrera, Forest Whitaker, ad esempio) e la narrazione si fa più serrata e ambiziosa. Il crescendo è evidente, ma gestito con equilibrio, sul doppio piano dell’emotività e dell’azione, fino alla scena bellica finale di impatto straordinario e senza una sbavatura, giocata alla grande giocandosi tutto sulla sinfonia e la sintonia del montaggio e della sceneggiatura e della musica di Giacchino, prima che negli effetti speciali e nella regia. E solo alla fine ti rendi conto che sì, tu la fine del film già la conoscevi. Che quel mitico volo di Luke Skywalker nella battaglia campale di Yavin tra Impero e Alleanza Ribelle, sarebbe impossibile senza che i piani strutturali della terribile arma di distruzione di massa non fossero stati a conoscenza dei rivoltosi. Ma non conta, perché epica, etica (qui tutti fanno la cosa giusta, dopo una vita a farne di sbagliate: pensate a Diego Luna), estetica si sposano perfettamente, fino alla struggente scena d’amore (e non solo) nel finale. E tu che sapevi già tutto te lo sei scordato.È tornata la forza, e noi ci sentiamo sollevati. Star Wars Anthology potrebbe rivelarsi un balsamo rivitalizzante per una saga che rischiava seriamente di crollare sotto il peso del proprio mito e cosmogonia. Ora, però, scusatemi. In proiezione stampa ce l’hanno fatto vedere in 2D. Ad occhio e croce in 3D è ancora più bello. Quindi vi lascio, che me lo rivedo un’altra volta.P.S.: vorrei ringraziare il mio cavaliere Jedi, Alessandro Bartolotta. Senza di lui, non sarei qui a parlarvi di Star Wars. Anzi, forse non lo avrei neanche visto e capito. Potente alleato egli è.

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Sì. La forza è tornata: potente, epica, romantica, fresca, vibrante. Prima di ogni considerazione critica, prima di iniziare la recensione, ve lo dobbiamo: state tranquilli, non è come nella seconda e terza trilogia (che poi non è la seconda, ma non iniziamo con l’ordine cronologico degli episodi di Star Wars, serve un dottorato ora che sono arrivati anche gli spin-off): il passo falso, drammaticamente falso e disastroso, nel primo capitolo di Star Wars Anthology, Rogue One: A Star Wars Story, da oggi in 750 sale in Italia, non è arrivato. Pensavamo fosse ormai una regola quella del “cattiva la prima”: la minaccia fantasma ci aveva fatto piangere lacrime amare negli anni ’90; Il risveglio della forza di J.J. Abrams, l’anno scorso, ci aveva sconvolto scimmiottando il primo film della saga con spudorata e insopportabile civetteria e senza fascino; a voler essere sacrileghi, infine, forse Una nuova speranza, nella trilogia originale, era il “meno migliore”. Nel caso recente de Il risveglio della forza, ferita ancora aperta (è uscito solo un anno fa), la delusione era stata cocente, contando che il regista era quello che aveva rivitalizzato Star Trek – ma forse era proprio quello il problema – e che tutti noi lo attendevamo con ansia ed amore, potendo contare su personaggi e attori della prima trilogia. Che poi è la seconda, ma tanto lo sapete.

Bene, è un pollice alzato, questo Rogue One: A Star Wars Story. E, ora possiamo confessarlo, non ci avremmo scommesso un euro. Perché il cast sembrava, sulla carta, confusionario e poco omogeneo, perché la trama trapelata non suggeriva chissà quali possibilità di realizzare, perché noi guerrestellarofili, diciamolo, siamo delle vestali gelose del Millennium Falcon e tutto il resto è noia. E la collocazione capitolo tra Episodio III ed Episodio IV era da allarme rosso.
Eppure Gareth Edwards ha saputo fare breccia con la scelta più facile e allo stesso tempo complessa: prendere lo spirito di Star Wars e farlo proprio, senza farsi schiacciare dall’immaginario di Lucas, che è uomo di regia e di immaginazione, ma anche di marketing e dotato di un’indolenza artistica affascinante. Un po’ come accadde a Kershner, soprattutto, ma anche a Marquand negli anni ’80.
Il cineasta britannico, già autore del geniale Monsters, non ha paura delle icone, degli universi cinematografici entrati nel mito, è uno che si è messo alla prova con Godzilla, per intenderci. E, diciamocelo, ha forse anche il compito leggermente facilitato dal fatto che questo è il primo di tre spin-off (della serie chiamata Star Wars Anthology, appunto), il che lo sgancia da una continuity forse troppo scomoda, ora, ma comunque legata all’universo che tanto ha cambiato il nostro immaginario fantascientifico.

Rogue One: A Star Wars Story | Trailer finale | HD

Eppure. Eppure si parte malissimo, con quel “tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana” che sembra scritto su un Commodore 64, con un font imbarazzante. E la partenza lenta – di sicuro il punto debole (o meglio meno forte) del lungometraggio – potrebbe farvi tremare i polsi e temere un altro disastro. Sbagliato. Il racconto è serrato, pieno del ritmo, dell’epica e della freschezza che sono parte integrante di Star Wars. Edwards ha il pregio di farle sue, di essere moderno non rinunciando a tornare indietro, persino quegli effetti visivi di cui è maestro li dosa con intelligenza e senza strafare, perché sa che al di là della filologia, è necessario restituire al pubblico il profumo dei primi film senza esserne schiavi.

Azzeccato il cast: Felicity Jones ha la forza, nel vero senso della parola, per essere protagonista, nel modo in cui sapeva farlo Hamill, da spalla di un gruppo, capace di essere centrale ma non invadente. Ed è pure antipatica il giusto (confessiamolo: Luke era molto meno simpatico di Han). Diego Luna, da cavalier servente funziona, Mads Mikkelsen si fa vedere il giusto per essere credibile. I comprimari funzionano, compresi i non umani: K-2S0 sana il dramma dei robot senza carisma degli ultimi film. Non era una passeggiata: bisognava fare Star Wars senza cavalieri Jedi – oddio, uno c’è, ma non si sente tanto bene, un altro viene solo citato -, senza spade laser (ne vedrete una sola), con pochissimo Darth Vader (attenzione, la scena più interessante è un suo vedo non vedo senza armatura), ma dopo il Kylo Ren de Il risveglio della forza meglio così.

E non è escluso che sia anche questo ad aver liberato la fantasia, a dare potere a ciò che ha fatto della saga un successo planetario: quell’inspiegabile alchimia tra storia e pubblico, con un grado di coinvolgimento simile a quello delle tragedie greche dell’antichità, a cui Lucas ha confessato più volte di dovere molto. Qui è costruita con gli elementi cardine della prima trilogia: la ribellione al male, la Morte Nera, il romanzo di formazione dell’orfano, con Davide e Golia in lotta, aiutati da un Ulisse pronto a sistemare il suo cavallo di Troia dove nessuno può sospettare che sia.

Ma non basta: perché dopo l’inizio diesel, il film decolla e accelera, salta nell’iperspazio e ti trascina con lui: non sbaglia un’inquadratura, si lascia dietro i personaggi meno riusciti (il ribelle estremista Saw Gerrera, Forest Whitaker, ad esempio) e la narrazione si fa più serrata e ambiziosa. Il crescendo è evidente, ma gestito con equilibrio, sul doppio piano dell’emotività e dell’azione, fino alla scena bellica finale di impatto straordinario e senza una sbavatura, giocata alla grande giocandosi tutto sulla sinfonia e la sintonia del montaggio e della sceneggiatura e della musica di Giacchino, prima che negli effetti speciali e nella regia. E solo alla fine ti rendi conto che sì, tu la fine del film già la conoscevi. Che quel mitico volo di Luke Skywalker nella battaglia campale di Yavin tra Impero e Alleanza Ribelle, sarebbe impossibile senza che i piani strutturali della terribile arma di distruzione di massa non fossero stati a conoscenza dei rivoltosi. Ma non conta, perché epica, etica (qui tutti fanno la cosa giusta, dopo una vita a farne di sbagliate: pensate a Diego Luna), estetica si sposano perfettamente, fino alla struggente scena d’amore (e non solo) nel finale. E tu che sapevi già tutto te lo sei scordato.

È tornata la forza, e noi ci sentiamo sollevati. Star Wars Anthology potrebbe rivelarsi un balsamo rivitalizzante per una saga che rischiava seriamente di crollare sotto il peso del proprio mito e cosmogonia.
Ora, però, scusatemi. In proiezione stampa ce l’hanno fatto vedere in 2D. Ad occhio e croce in 3D è ancora più bello. Quindi vi lascio, che me lo rivedo un’altra volta.

P.S.: vorrei ringraziare il mio cavaliere Jedi, Alessandro Bartolotta. Senza di lui, non sarei qui a parlarvi di Star Wars. Anzi, forse non lo avrei neanche visto e capito. Potente alleato egli è.