PJ Harvey — The Hope Six Demolition Project | Rolling Stone Italia
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PJ Harvey — The Hope Six Demolition Project

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Con questo disco PJ Harvey ha trovato la sua chaise longue in quel loft molto fico – un Erwin Olaf appeso alla parete e bio zuppette nel frigo – che è oggi il rock adulto. Sui divanetti, sempre Le Courbusier, le fanno compagnia, molto eleganti, Nick Cave, Blonde Redhead e un gruppo di cosplayer della Factory di Andy Warhol. Tutti rocker attillatissimi e consapevoli, che flirtano da anni con l’arte contemporanea, la moda, la fotografia e – più in generale – la coolness. Già, perché The Hope Six Demolition Project è senza dubbi un album uber cool, che cinque stellette (su cinque) a mettergliele pare un po’ volgare, ma pazienza. E non solo perché è stato suonato durante un open recording session lunga cinque settimane, una vera e propria installazione con PJ e i suoi soci di sempre – tra cui Flood e John Parish – a pluggare strumenti dietro a una vetrina della Somerset House di Londra. Neppure perché il disco in questione fa in realtà parte di un progetto più ampio: i pezzi sono stati composti tutti, tra il 2011 e il 2014, durante i viaggi che PJ ha fatto in Kosovo, Afghanistan e Washington DC insieme all’amico fotografo e filmmaker Seamus Murphy, esperienza che è raccolta anche in un libro – The Hollow of the Hand – con poesie di lei e foto di lui.The Hope Six Demolition Project è fico perché è rock da “adulti del futuro”, che ha sostituito l’urgenza espressiva con l’attitudine senza rinunciare all’innovazione, proponendosi anzi – in maniera arty e spesso naïf – come avanguardia senza bisogno degli accelerazionismi digitali tanto di moda. Bastano le chitarre, e pacchi di consapevolezza (politica, certamente): guardate il video di The Wheel – uno dei pezzoni del disco, un mantra di handclapping e batteria con fiati e riff nervosissimi – e potrete vedere che quella ragazza, stravaccata con la chitarra tra le braccia sul sedile posteriore di un’auto che cammina per le sgarrupate strade del Kosovo, non sta recitando nessuna parte. Polly Jean Harvey guarda fuori dal finestrino e vede un calcinculo arrugginito di un luna park abbandonato di quella terra in guerra, lo afferra col pensiero e ci scrive una canzone, The Wheel, la ruota. Un processo artistico che è tanto naturale quanto raffinato, così da poter sembrare insincero e fichetto, insincero perché fichetto. Ma è proprio questo il paradosso vincente della cantante, polistrumentista e artista: PJ Harvey è rock perché è così fica, sofisticata da stare sulle palle, la sua è una perfezione antipatica allo stesso tempo grezza e abilmente costruita. Questo ultimo disco – che arriva a cinque anni di distanza da Let the England Shake – è certamente meno ruvido e urgente dell’album con cui si fece riconoscere all’esordio (Rid of Me), ma ha in comune la cura artigianale di PJ per ogni dettaglio, dagli arrangiamenti alla scelta dei musicisti: forse non sarà un caso che sia figlia di una scultrice e, appunto, di un artigiano. Per questo, ognuna delle 11 tracce del cd e, naturalmente, vinile ha un’identità ben riconoscibile, il “PJ Sound” si declina artisticamente al suo meglio: dalla marcetta di Chain of Keys, che militarmente guida le nostre emozioni più dark, ai cori epici di The Ministry of Defence, in cui la cantante sembra sempre di più la sorella d’arte di Nick Cave, fino ad arrivare all’acida jam session di The Ministry of Social Affair, un blues da stregoni con tanto di vocine da rito voodoo e fiati free che ricordano Alice Coltrane (la nostra, se non lo sapete, è pure una bravissima sassofonista). Che la sua voce abbia la febbre a 39° (The Community of Hope), d’improvviso 16 anni (A Line In The Sand), o il richiamo di una sirena punk (Near the Memorials to Vietnam and Lincoln, forse la canzone più bella), ha sempre la forza di diventare la guida di ogni brano, anche se ad accompagnarla c’è il più ruvido chitarrone hard rock o un feedback spigoloso alla Wire. Ora non ci resta che trovare il nostro spazio – se non è una chaise longue, un divano Ektorp dell’Ikea va benissimo – e goderci quello che è il più bello (e quindi il più antipatico) disco di questo inizio 2016.ibs_button

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Con questo disco PJ Harvey ha trovato la sua chaise longue in quel loft molto fico – un Erwin Olaf appeso alla parete e bio zuppette nel frigo – che è oggi il rock adulto. Sui divanetti, sempre Le Courbusier, le fanno compagnia, molto eleganti, Nick Cave, Blonde Redhead e un gruppo di cosplayer della Factory di Andy Warhol. Tutti rocker attillatissimi e consapevoli, che flirtano da anni con l’arte contemporanea, la moda, la fotografia e – più in generale – la coolness. Già, perché The Hope Six Demolition Project è senza dubbi un album uber cool, che cinque stellette (su cinque) a mettergliele pare un po’ volgare, ma pazienza. E non solo perché è stato suonato durante un open recording session lunga cinque settimane, una vera e propria installazione con PJ e i suoi soci di sempre – tra cui Flood e John Parish – a pluggare strumenti dietro a una vetrina della Somerset House di Londra. Neppure perché il disco in questione fa in realtà parte di un progetto più ampio: i pezzi sono stati composti tutti, tra il 2011 e il 2014, durante i viaggi che PJ ha fatto in Kosovo, Afghanistan e Washington DC insieme all’amico fotografo e filmmaker Seamus Murphy, esperienza che è raccolta anche in un libro – The Hollow of the Hand – con poesie di lei e foto di lui.

The Hope Six Demolition Project è fico perché è rock da “adulti del futuro”, che ha sostituito l’urgenza espressiva con l’attitudine senza rinunciare all’innovazione, proponendosi anzi – in maniera arty e spesso naïf – come avanguardia senza bisogno degli accelerazionismi digitali tanto di moda. Bastano le chitarre, e pacchi di consapevolezza (politica, certamente): guardate il video di The Wheel – uno dei pezzoni del disco, un mantra di handclapping e batteria con fiati e riff nervosissimi – e potrete vedere che quella ragazza, stravaccata con la chitarra tra le braccia sul sedile posteriore di un’auto che cammina per le sgarrupate strade del Kosovo, non sta recitando nessuna parte. Polly Jean Harvey guarda fuori dal finestrino e vede un calcinculo arrugginito di un luna park abbandonato di quella terra in guerra, lo afferra col pensiero e ci scrive una canzone, The Wheel, la ruota. Un processo artistico che è tanto naturale quanto raffinato, così da poter sembrare insincero e fichetto, insincero perché fichetto. Ma è proprio questo il paradosso vincente della cantante, polistrumentista e artista: PJ Harvey è rock perché è così fica, sofisticata da stare sulle palle, la sua è una perfezione antipatica allo stesso tempo grezza e abilmente costruita. Questo ultimo disco – che arriva a cinque anni di distanza da Let the England Shake – è certamente meno ruvido e urgente dell’album con cui si fece riconoscere all’esordio (Rid of Me), ma ha in comune la cura artigianale di PJ per ogni dettaglio, dagli arrangiamenti alla scelta dei musicisti: forse non sarà un caso che sia figlia di una scultrice e, appunto, di un artigiano. Per questo, ognuna delle 11 tracce del cd e, naturalmente, vinile ha un’identità ben riconoscibile, il “PJ Sound” si declina artisticamente al suo meglio: dalla marcetta di Chain of Keys, che militarmente guida le nostre emozioni più dark, ai cori epici di The Ministry of Defence, in cui la cantante sembra sempre di più la sorella d’arte di Nick Cave, fino ad arrivare all’acida jam session di The Ministry of Social Affair, un blues da stregoni con tanto di vocine da rito voodoo e fiati free che ricordano Alice Coltrane (la nostra, se non lo sapete, è pure una bravissima sassofonista). Che la sua voce abbia la febbre a 39° (The Community of Hope), d’improvviso 16 anni (A Line In The Sand), o il richiamo di una sirena punk (Near the Memorials to Vietnam and Lincoln, forse la canzone più bella), ha sempre la forza di diventare la guida di ogni brano, anche se ad accompagnarla c’è il più ruvido chitarrone hard rock o un feedback spigoloso alla Wire. Ora non ci resta che trovare il nostro spazio – se non è una chaise longue, un divano Ektorp dell’Ikea va benissimo – e goderci quello che è il più bello (e quindi il più antipatico) disco di questo inizio 2016.

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