Pet Shop Boys — Super | Rolling Stone Italia
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Pet Shop Boys — Super

Leggi la recensione dei Pet Shop Boys su RollingStone.it

Nella lotteria delle recensioni, al nome Pet Shop Boys mi sono sentita chiamata in causa. Alla lotteria non dovrei nemmeno partecipare, eppure il mio entusiasmo è stato accolto con altrettanto (sospetto) entusiasmo. Riflettendoci brevemente, avevo decifrato i sentimenti di entrambe le parti: mentre io pensavo a Paninaro, West End Girls e tutto Introspective, loro pensavano ai pezzi malinconici e “spompati” di Elysium o alla rincorsa al contemporaneo che era Electric del 2013 – un album che, per gli accenni dubstep, supera a fatica la prova del tempo. Fortunatamente avevo ragione io: Super è un album che ha un piede nella scena house ballroom dei primi anni ’90 (in pezzi come Groovy o Burn) e un altro nell’Eurodance in tutte le sue sfumature, che nell’album partono dai synth di Twenty-Something e finiscono nella cassa di Pazzo! e Inner Sanctum. Tutto questo riesce a non risultare anacronistico grazie a un’attitudine “fedeli a se stessi” e all’accompagnamento di Stuart Price, che per questo album sembra lasciar fare più ai suoi celebri assistiti rispetto a quanto non sia stato per Electric. Ci sono brani incredibilmente “Pet Shop Boys” (una definizione che ormai non ha bisogno di spiegazioni), come l’inno The Pop Kids, e altri che si sposano bene con l’onda di ritorno dell’house anni 2000, come Say It to Me e Undertow. Avete presente l’inizio di It’s a Sin – quattro battute, entra l’organo con un conto alla rovescia, attacca un coro da chiesa, poi tutto esplode e partono le braccia verso l’alto? Trent’anni dopo, i Pet Shop Boys non hanno più voglia di preliminari, Super parte con le braccia in alto e resta così fino alla fine (giusto un attimo di pausa su Sad Robot World per far riprendere la circolazione), a dimostrazione che non di soli vecchi successi vive una band decennale.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di aprile. Puoi leggere l'edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
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Nella lotteria delle recensioni, al nome Pet Shop Boys mi sono sentita chiamata in causa. Alla lotteria non dovrei nemmeno partecipare, eppure il mio entusiasmo è stato accolto con altrettanto (sospetto) entusiasmo. Riflettendoci brevemente, avevo decifrato i sentimenti di entrambe le parti: mentre io pensavo a Paninaro, West End Girls e tutto Introspective, loro pensavano ai pezzi malinconici e “spompati” di Elysium o alla rincorsa al contemporaneo che era Electric del 2013 – un album che, per gli accenni dubstep, supera a fatica la prova del tempo. Fortunatamente avevo ragione io: Super è un album che ha un piede nella scena house ballroom dei primi anni ’90 (in pezzi come Groovy o Burn) e un altro nell’Eurodance in tutte le sue sfumature, che nell’album partono dai synth di Twenty-Something e finiscono nella cassa di Pazzo! e Inner Sanctum. Tutto questo riesce a non risultare anacronistico grazie a un’attitudine “fedeli a se stessi” e all’accompagnamento di Stuart Price, che per questo album sembra lasciar fare più ai suoi celebri assistiti rispetto a quanto non sia stato per Electric. Ci sono brani incredibilmente “Pet Shop Boys” (una definizione che ormai non ha bisogno di spiegazioni), come l’inno The Pop Kids, e altri che si sposano bene con l’onda di ritorno dell’house anni 2000, come Say It to Me e Undertow. Avete presente l’inizio di It’s a Sin – quattro battute, entra l’organo con un conto alla rovescia, attacca un coro da chiesa, poi tutto esplode e partono le braccia verso l’alto? Trent’anni dopo, i Pet Shop Boys non hanno più voglia di preliminari, Super parte con le braccia in alto e resta così fino alla fine (giusto un attimo di pausa su Sad Robot World per far riprendere la circolazione), a dimostrazione che non di soli vecchi successi vive una band decennale.

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