Paul Simon – Stranger to Stranger | Rolling Stone Italia
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Paul Simon – Stranger to Stranger

Alcune immagini ricorrenti del nuovo album di Paul Simon: ospedali, insonnia, paradiso e aldilà, lupi, amore, Dio. Insomma, quello che passa per la testa a un newyorkese di 74 anni, trasformato casualmente in arte da quella sua voce saggia, da bravo ragazzo del coro. Persino il discorso di Simon intorno alla parola “motherfucker” – nell’irresistibile […]

Alcune immagini ricorrenti del nuovo album di Paul Simon: ospedali, insonnia, paradiso e aldilà, lupi, amore, Dio. Insomma, quello che passa per la testa a un newyorkese di 74 anni, trasformato casualmente in arte da quella sua voce saggia, da bravo ragazzo del coro. Persino il discorso di Simon intorno alla parola “motherfucker” – nell’irresistibile Cool Papa Bell – sembra qualcosa di talmudico. Ma non è nemmeno l’aspetto più divertente di Stranger to Stranger, un disco che con naturalezza riassume tutti gli stili accumulati negli anni dal cantautore: il folk gentile di Simon and Garfunkel; il gusto gospel di There Goes Rhymin’ Simon; le gocce afropop di Graceland; i fuochi d’artificio samba di The Rhythm of the Saints; i ripescaggi vintage di So Beautiful or So What, del 2011. L’ultima fatica continua nello stesso spirito: se mai è stato realizzato un disco al tempo stesso spassoso, irrisolto, seducente e perfettamente levigato, è proprio questo. Il sofisticato senso del ritmo di Simon – la sua arma segreta fin dai tempi del folk – qui va a tutta forza, grazie al sottile, ma poliedrico, fraseggio vocale, e ai beat dell’italiano Cristiano Crisci (a.k.a. Clap! Clap!). Stranger to Stranger tocca subito il suo vertice comico con The Werewolf, un gioco su un americano medio che viene ucciso dalla moglie con un coltello da sushi, e intraprende una ricerca immobiliare in paradiso. Wristband, che parte con la divertente immagine di un musicista bloccato fuori dal suo stesso show, è un simile, bizzarro racconto, che diventa di colpo qualcosa di più tetro. Nella traccia finale, Insomniac’s Lullaby, strumenti come il chromelodeon o lo zoomoozophone (eredità del compositore iconoclasta Harry Partch) brulicano come formiche, sotto la voce e la chitarra acustica di Simon, mentre lui si immagina di giacere a letto, solo con le proprie paure. “We’ll eventually all fall asleep”, conclude, e non si può che dargli ragione, in senso immediato ed esistenziale. È una nota di grazia che si apre sull’infinito, da un uomo che non sembra avere alcuna fretta di raggiungerlo.

Alcune immagini ricorrenti del nuovo album di Paul Simon: ospedali, insonnia, paradiso e aldilà, lupi, amore, Dio. Insomma, quello che passa per la testa a un newyorkese di 74 anni, trasformato casualmente in arte da quella sua voce saggia, da bravo ragazzo del coro. Persino il discorso di Simon intorno alla parola “motherfucker” – nell’irresistibile Cool Papa Bell – sembra qualcosa di talmudico. Ma non è nemmeno l’aspetto più divertente di Stranger to Stranger, un disco che con naturalezza riassume tutti gli stili accumulati negli anni dal cantautore: il folk gentile di Simon and Garfunkel; il gusto gospel di There Goes Rhymin’ Simon; le gocce afropop di Graceland; i fuochi d’artificio samba di The Rhythm of the Saints; i ripescaggi vintage di So Beautiful or So What, del 2011. L’ultima fatica continua nello stesso spirito: se mai è stato realizzato un disco al tempo stesso spassoso, irrisolto, seducente e perfettamente levigato, è proprio questo. Il sofisticato senso del ritmo di Simon – la sua arma segreta fin dai tempi del folk – qui va a tutta forza, grazie al sottile, ma poliedrico, fraseggio vocale, e ai beat dell’italiano Cristiano Crisci (a.k.a. Clap! Clap!). Stranger to Stranger tocca subito il suo vertice comico con The Werewolf, un gioco su un americano medio che viene ucciso dalla moglie con un coltello da sushi, e intraprende una ricerca immobiliare in paradiso. Wristband, che parte con la divertente immagine di un musicista bloccato fuori dal suo stesso show, è un simile, bizzarro racconto, che diventa di colpo qualcosa di più tetro. Nella traccia finale, Insomniac’s Lullaby, strumenti come il chromelodeon o lo zoomoozophone (eredità del compositore iconoclasta Harry Partch) brulicano come formiche, sotto la voce e la chitarra acustica di Simon, mentre lui si immagina di giacere a letto, solo con le proprie paure. “We’ll eventually all fall asleep”, conclude, e non si può che dargli ragione, in senso immediato ed esistenziale. È una nota di grazia che si apre sull’infinito, da un uomo che non sembra avere alcuna fretta di raggiungerlo.

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