Parquet Courts — Human Performance | Rolling Stone Italia
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Parquet Courts — Human Performance

Leggi la nostra recensione dei Parquet Courts su Rollingstone.it

In tempi di vintage spinto, fa piacere sentire un gruppo come i Parquet Courts, con un sound che – pur non sconfinando oltre i primi anni ’90 – non sembra voler monetizzare la nostalgia per creare condizionamenti automatici da amarcord.Piuttosto, parlerei di una forma sana e complessa di derivativismo, dove i quattro ragazzi texani, trasferiti però nella gentrificatissima Brooklyn di oggi, sanno tenere insieme il meglio di una New York andata (Television, Lou Reed, Sonic Youth), con una chiara influenza di Pavement e Fugazi, e persino echi di Neil Young riuscendo nella sintesi di un immaginario iper-americano (dall’underground metropolitano alla vastità della provincia) ancora fondatamente possibile. Anche i testi vanno in quella direzione – lo stesso frontman Andrew Savage cita nelle interviste: De Lillo, Wallace, Pynchon e Vollman – spingendo l’approccio punk verso una poetica più strutturata, verso la consapevolezza di essere in qualche modo postumi (le epoche d’oro sono sempre quelle che non si vivono...), ma proprio per questo più lucidi, capaci di un disincanto che non sfoci solo in un cinismo facile e contrattualizzato. Ed è per questo che la forma del rimpianto è più complessa e meno scontata di quanto si vorrebbe, e che i Parquet Courts non sono semplicemente la nuova band post-punk di Williamsburg che si diverte a giocare con le chitarrine, e i feticci del passato per regalarci l’esperienza del localino newyorkese fetido e sfasciato che ora non esiste più.In Berlin Got Blurry, uno dei pezzi più belli del nuovo album Human Perfomance, c’è una frase piuttosto indicativa: “Nothing lasts but nearly everything lingers in life” (“Nella vita niente dura, ma quasi tutto resta”) che è una descrizione perfetta dell’inquietudine contemporanea, scissa tra rimozioni, elaborazioni del lutto, e l’ansia di far durare qualcosa per sempre: che sia una storia d’amore, il fascino decadente di una città o le prove in garage con gli amici. Non è detto che questa inquietudine vada risolta, intanto i Parquet Courts l’accompagnano come possono, con un album molto bello.

Questo articolo è pubblicato su Rolling Stone di aprile. Puoi leggere l'edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
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In tempi di vintage spinto, fa piacere sentire un gruppo come i Parquet Courts, con un sound che – pur non sconfinando oltre i primi anni ’90 – non sembra voler monetizzare la nostalgia per creare condizionamenti automatici da amarcord.

Piuttosto, parlerei di una forma sana e complessa di derivativismo, dove i quattro ragazzi texani, trasferiti però nella gentrificatissima Brooklyn di oggi, sanno tenere insieme il meglio di una New York andata (Television, Lou Reed, Sonic Youth), con una chiara influenza di Pavement e Fugazi, e persino echi di Neil Young riuscendo nella sintesi di un immaginario iper-americano (dall’underground metropolitano alla vastità della provincia) ancora fondatamente possibile. Anche i testi vanno in quella direzione – lo stesso frontman Andrew Savage cita nelle interviste: De Lillo, Wallace, Pynchon e Vollman – spingendo l’approccio punk verso una poetica più strutturata, verso la consapevolezza di essere in qualche modo postumi (le epoche d’oro sono sempre quelle che non si vivono…), ma proprio per questo più lucidi, capaci di un disincanto che non sfoci solo in un cinismo facile e contrattualizzato. Ed è per questo che la forma del rimpianto è più complessa e meno scontata di quanto si vorrebbe, e che i Parquet Courts non sono semplicemente la nuova band post-punk di Williamsburg che si diverte a giocare con le chitarrine, e i feticci del passato per regalarci l’esperienza del localino newyorkese fetido e sfasciato che ora non esiste più.

In Berlin Got Blurry, uno dei pezzi più belli del nuovo album Human Perfomance, c’è una frase piuttosto indicativa: “Nothing lasts but nearly everything lingers in life” (“Nella vita niente dura, ma quasi tutto resta”) che è una descrizione perfetta dell’inquietudine contemporanea, scissa tra rimozioni, elaborazioni del lutto, e l’ansia di far durare qualcosa per sempre: che sia una storia d’amore, il fascino decadente di una città o le prove in garage con gli amici.
Non è detto che questa inquietudine vada risolta, intanto i Parquet Courts l’accompagnano come possono, con un album molto bello.

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