Non è un paese per giovani: Roma-L’Avana solo andata | Rolling Stone Italia
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Non è un paese per giovani: Roma/L’Avana solo andata

Italia e Cuba, giovani alla ricerca di se stessi, un triangolo emotivo che ha come vertici una ragazza un po’ squinternata. C’era tutto per cucinare un minestrone di luoghi comuni e in parte gli ingredienti ci sono, è però il sapore ad essere diverso

Italia e Cuba, giovani alla ricerca di se stessi, un triangolo emotivo che ha come vertici una ragazza un po’ squinternata, persino un vecchio e il mare. C’era tutto per metter su un minestrone di luoghi comuni in Non è un paese per giovani e in parte gli ingredienti a Veronesi fanno cucinare proprio questo piatto. E’ però il sapore che è diverso, perché questo regista ha sempre nuotato nel mare degli stereotipi, da commediante cinico e, ora, da narratore più melò e romantico (ma in fondo, a rivedere i suoi film è stato entrambi in tutti), e ne ha cavalcato l’onda senza annegarci mai. I difetti di questo film li trovi nella prima parte, nella presentazione di questi due ragazzi con la voglia di fuggire da un paese come l’Italia, ormai spento, arido, un po’ avido e schiavo dei suoi espedienti come lo sono i loro datori di lavoro e forse pure i loro genitori. Li trovi in quella partenza immediata e in uno sviluppo narrativo frettoloso – pur “salvato” dall’ottimo montaggio di Patrizio Marone -, ma l’opera prende quota appena il romanzo di formazione prende il sopravvento rispetto al suo titolo programmatico, pur non tradendolo.

E son queste le cose che riescono meglio a Veronesi, quelle jam session mentali e cinematografiche che, ai tempi del non riuscito Italians, portarono, ad esempio, Giuliano Sangiorgi a partorire Meraviglioso, su sua ispirazione, e che ora porta il frontman dei Negramaro a comporre una colonna sonora sorprendente e nuova, anche rispetto alla sua produzione, in molte sonorità e mai scontata nella sua adesione alle immagini.
Il regista ha preso spunto, probabilmente caso unico nel mondo del cinema (se non parliamo dei biopic americani legati a grandi speaker radiofonici, come Private Parts su Howard Stern), dalla trasmissione omonima su Radio Rai 2, condotta con l’ottimo Massimo Cervelli, un’indagine via etere su una generazione che per non perdersi, come i suoi fratelli maggiori, ha deciso di partire, fuggire, cercare la propria felicità altrove. Non ne è uscito un film ideologico né didascalico, perché quei videoselfie che vediamo sui titoli di testa e di coda sono intrisi di speranza e malinconia, di nostalgia e avventura, di rimpianto per le opportunità mancate e di attesa per quelle che finalmente qualcuno darà loro. Veronesi ha avuto la curiosità e la voglia di capire la frustrazione di tutti coloro che sono nati dopo la fine degli anni ’70 e in particolare quelli che sono venuti al mondo nei ’90. Se i primi sono stati traditi e dimenticati, i secondi hanno saputo fin da subito che qui, per loro, non c’era nulla. Se i primi non hanno avuto ciò che era stato loro promesso, i secondi non hanno mai avuto questa illusione, e hanno deciso di andarsela a prendere altrove. Scoprendo una cosa che accomuna fratelli maggiori e minori, figli di chi ha provato a cambiare il mondo per poi venderselo per un tozzo di pane: la nostra generazione, le nostre generazioni non hanno perso, come quella di Gaber. Semplicemente, non l’hanno neanche fatta scendere in campo. E allora meglio cambiare stadio, almeno per avere l’illusione di dare il calcio d’inizio alla partita, meglio pensare a Cuba, a un chiosco sulla spiaggia con tanto di Wi-Fi di stato che viene concesso a un’attività di ristorazione grazie a Felipe, sorta di mandrake caraibico. Tutto, pur di non morire di inedia in un paese che ha perso la voglia di fare, pensare e persino sognare.

Ecco perché quando comincia,il sogno, la favola storta di un Filippo Scicchitano che alla fine rischia di finire a fare quello che faceva in Italia con un Nino Frassica immigrato traffichino, ma non smette di voler scrivere e vivere (ed è delizioso, di contorno, il padre disegnato da Sergio Rubini), di un Giovanni Anzaldo (bella faccia e buona presenza scenica) che abbraccia il Fight Club locale e soprattutto di una Sara Serraiocco (la Natalie Portman italiana) incantevole e bravissima nella sua Nora, donna bambina che ha un dolore dentro il cuore che l’ha fatta implodere per poi rinascere, il film non può non farsi voler bene. Veronesi dà voce non alla realtà o al realismo – basta pensare alla parabola del pescatore, quel Luis Rielo che ti farebbe credere anche che esiste Babbo Natale – ma al desiderio, allo sguardo oltre l’orizzonte, alla vita che magari ti tradisce ed è pure una bastarda un po’ puttana, però a rimanerci in sella alla fine trovi il modo di amarla. E se pure è naif, a volte prevedibile, questa storia ti accarezza il cuore e ancora di più lo fanno i suoi protagonisti, che magari ci mettono un po’ a entrare in parte – tranne quella Serraiocco che dopo La ragazza del mondo, Non è un paese per giovani e il prossimo geniale Brutti e Cattivi è la nostra vera shooting star (segnatevi il suo nome, è nata una stella) – ma poi la sanno indossare alla perfezione, comprimari compresi. C’è in Veronesi la freschezza di Che ne sarà di noi ma anche la consapevolezza di Genitori e Figli, con una spruzzata del suo film forse più bello, L’ultima ruota del carro (e al vero protagonista di quella storia, Ernesto Fioretti, qui regala qualche posa), di cui questo lungometraggio prende quel misto agrodolce di voglia di futuro e pesi del presente, con il ritratto sfumato di un paese avvilente, perché non sa essere né un rimpianto né un desiderio. E va bene anche raccontare questo con un pizzico di retorica, di buoni sentimenti, con un sorriso e un occhio lucido in più. Non sarà d’autore, ma forse è proprio il nichilismo, quel “non ce la faremo mai” che tutti ci ripetiamo ogni giorno, ad aver ucciso questo paese. Siamo così abituati a essere vittime, che, forse, siamo diventati i carnefici di noi stessi.