Joan Didion - Run River | Rolling Stone Italia
Recensioni

Joan Didion – Run River

Leggi la recensione del primo romanzo di Joan Didion, ripubblicato da Il Saggiatore, su RollingStone.it

Era un po’ tardi per scegliere, aveva detto lei a Everett; come se non fosse sempre stato così. Esiste mai nella vita di qualcuno un punto, slegato dal tempo, privo di memoria, un punto in cui la scelta è più della somma di tutte le scelte compiute prima? Si apre così uno dei capitoli di Run River, libro di esordio di Joan Didion, edito per la prima volta nel 1963. Da allora, l’intera opera di Didion ha tentato di immaginare e scardinare di continuo la possibilità di quel punto, un esistere fuori dalle pastoie temporali della Storia e dal senso di ineluttabile, un punto in cui i territori sono ancora vergini, gli orizzonti ancora luminosi, le feste ancora divertenti e le scelte ancora credibili. Run River ha la struttura di un melodramma familiare, un matrimonio distrutto dal tradimento, un omicidio, un rapporto ossessivo tra fratello e sorella; sullo sfondo una California rurale e mitica, asfissiata da un calore “così denso da sembrare infiammabile” e la minaccia di un imminente cambiamento verso la modernità: denaro e nuovi investimenti. In White Album, Didion scriverà che il Mississippi appartiene a Faulkner, allo stesso modo potremmo dire oggi che la California appartiene a Didion, per quanto lei stessa, con la feroce autocorrezione che porta avanti negli anni, abbia preso le distanze dal suo romanzo di esordio, scorgendo in quella visione ancestrale della California “un tenace e pernicioso senso di nostalgia”. Fa una certa impressione pensare che Didion abbia scritto in parte Run River di notte, mentre lavorava di giorno per Vogue a New York, e rende ancora più interessante ridefinire i confini di quella che lei ha bollato come falsa nostalgia, perché è difficile immaginare nel Mito americano due posti più lontani e conflittuali di quanto possano essere il ranch californiano di Run River – con i suoi legami di terra e di discendenza – e la redazione newyorkese di una rivista come Vogue.Ma è proprio in un’azzardata geografia dell’anima che si manifesta tutta la bravura di Didion, in grado di trasformare l’appartenenza a un luogo nell’eterna dialettica tra radicamento e straniamento, riflessa in tutti i personaggi dei suoi romanzi, soprattutto in quelli femminili. Lily, protagonista di Run River lascia apparire quelle che saranno la Maria di Prendila così o la Charlotte di Diglielo da parte mia, donne in cui la fragilità diventa una sorta di corazza di azzeramento dal mondo, donne che sembrano vivere a due passi dalle loro azioni, alienate dall’agire come dal desiderio, scisse tra cinismo e smarrimento, tra inerzia e fierezza, intente a costruire questa fragilità come fosse un lavoro di artigianato, per poi osservarlo con un distacco impietoso e ironico: “Lily non riusciva a immaginarsi con i capelli bianchi: intanto non aveva neanche trentasette anni, e poi aveva sempre considerato il suo stile straordinariamente fragile. Con i capelli grigi non potevi sembrare straordinariamente fragile, potevi solo sembrare fragile”.Lily è sposata con Everett McClellan, proprietario del ranch, e il libro ha inizio nell’estate del ’59, la notte in cui Everett spara a Ryder Channing: il parvenu, amante di sua moglie e di sua sorella Martha. Lo sparo arriva a Lily solo attraverso il riverbero del suono, come ogni altra cosa, al tempo stesso inevitabile e distante. A quel punto il racconto non segue le conseguenze dell’omicidio, ma si snoda in un lungo flash-back dal ’38 al ’59 sull’incontro e il rapporto tra Lily ed Everett. Potrebbe sembrare una formula per postulare il determinismo: come siamo arrivati a questo punto? Ripercorrere i condizionamenti, le paure e gli sbagli che hanno portato alla disintegrazione di un matrimonio. E dopo il matrimonio, ai silenzi coperti dai drink, “il completo da martire di Everett”, le feste a cui togliere l’audio e contare sulle stesse facce, gli stessi giochi e “le stesse Jennie qualunque”. Ma per Didion le scappatoie dal determinismo sono insite nella fragilità di cui parlavo, che ha dentro di sé una forma di resistenza volubile; così, quella che sembra una solida catena di eventi perde fiducia nel proprio meccanismo, cedendo il passo a una sospensione, quasi un’ottusità radicale di fronte alle più elementari dinamiche del mondo. Martha, più acuta di Everett nel sintetizzare il carattere di Lily, parlerà di lei in questi termini: “Voglio dire, Lily non riesce a dire cose semplici come ‘grazie’ o ‘preferirei di no’ o ‘potrei avere dell’altro caffè?” […] “Non voglio essere cattiva con Lily, sto solo evidenziando qualcosa di interessante. Qualcuno tiene la porta aperta per Lily in un ferramenta e lei pensa di dover affrontare una situazione estremamente complessa”. Quindi, sì, forse è sempre un po’ tardi per scegliere, perché il punto cristallino di una scelta non esiste. E quando si critica Didion perché i suoi personaggi, più che vivere, sembrano attraversare la vita, mi viene da pensare che sia esattamente così; ma non è ciò che facciamo tutti, se non vogliamo cedere all’accanimento delle intenzioni?

Leggi la recensione del primo romanzo di Joan Didion, ripubblicato da Il Saggiatore, su RollingStone.it

Era un po’ tardi per scegliere, aveva detto lei a Everett; come se non fosse sempre stato così. Esiste mai nella vita di qualcuno un punto, slegato dal tempo, privo di memoria, un punto in cui la scelta è più della somma di tutte le scelte compiute prima?

Si apre così uno dei capitoli di Run River, libro di esordio di Joan Didion, edito per la prima volta nel 1963.
Da allora, l’intera opera di Didion ha tentato di immaginare e scardinare di continuo la possibilità di quel punto, un esistere fuori dalle pastoie temporali della Storia e dal senso di ineluttabile, un punto in cui i territori sono ancora vergini, gli orizzonti ancora luminosi, le feste ancora divertenti e le scelte ancora credibili. Run River ha la struttura di un melodramma familiare, un matrimonio distrutto dal tradimento, un omicidio, un rapporto ossessivo tra fratello e sorella; sullo sfondo una California rurale e mitica, asfissiata da un calore “così denso da sembrare infiammabile” e la minaccia di un imminente cambiamento verso la modernità: denaro e nuovi investimenti. In White Album, Didion scriverà che il Mississippi appartiene a Faulkner, allo stesso modo potremmo dire oggi che la California appartiene a Didion, per quanto lei stessa, con la feroce autocorrezione che porta avanti negli anni, abbia preso le distanze dal suo romanzo di esordio, scorgendo in quella visione ancestrale della California “un tenace e pernicioso senso di nostalgia”. Fa una certa impressione pensare che Didion abbia scritto in parte Run River di notte, mentre lavorava di giorno per Vogue a New York, e rende ancora più interessante ridefinire i confini di quella che lei ha bollato come falsa nostalgia, perché è difficile immaginare nel Mito americano due posti più lontani e conflittuali di quanto possano essere il ranch californiano di Run River – con i suoi legami di terra e di discendenza – e la redazione newyorkese di una rivista come Vogue.

Ma è proprio in un’azzardata geografia dell’anima che si manifesta tutta la bravura di Didion, in grado di trasformare l’appartenenza a un luogo nell’eterna dialettica tra radicamento e straniamento, riflessa in tutti i personaggi dei suoi romanzi, soprattutto in quelli femminili. Lily, protagonista di Run River lascia apparire quelle che saranno la Maria di Prendila così o la Charlotte di Diglielo da parte mia, donne in cui la fragilità diventa una sorta di corazza di azzeramento dal mondo, donne che sembrano vivere a due passi dalle loro azioni, alienate dall’agire come dal desiderio, scisse tra cinismo e smarrimento, tra inerzia e fierezza, intente a costruire questa fragilità come fosse un lavoro di artigianato, per poi osservarlo con un distacco impietoso e ironico: “Lily non riusciva a immaginarsi con i capelli bianchi: intanto non aveva neanche trentasette anni, e poi aveva sempre considerato il suo stile straordinariamente fragile. Con i capelli grigi non potevi sembrare straordinariamente fragile, potevi solo sembrare fragile”.

Lily è sposata con Everett McClellan, proprietario del ranch, e il libro ha inizio nell’estate del ’59, la notte in cui Everett spara a Ryder Channing: il parvenu, amante di sua moglie e di sua sorella Martha. Lo sparo arriva a Lily solo attraverso il riverbero del suono, come ogni altra cosa, al tempo stesso inevitabile e distante. A quel punto il racconto non segue le conseguenze dell’omicidio, ma si snoda in un lungo flash-back dal ’38 al ’59 sull’incontro e il rapporto tra Lily ed Everett. Potrebbe sembrare una formula per postulare il determinismo: come siamo arrivati a questo punto? Ripercorrere i condizionamenti, le paure e gli sbagli che hanno portato alla disintegrazione di un matrimonio. E dopo il matrimonio, ai silenzi coperti dai drink, “il completo da martire di Everett”, le feste a cui togliere l’audio e contare sulle stesse facce, gli stessi giochi e “le stesse Jennie qualunque”. Ma per Didion le scappatoie dal determinismo sono insite nella fragilità di cui parlavo, che ha dentro di sé una forma di resistenza volubile; così, quella che sembra una solida catena di eventi perde fiducia nel proprio meccanismo, cedendo il passo a una sospensione, quasi un’ottusità radicale di fronte alle più elementari dinamiche del mondo. Martha, più acuta di Everett nel sintetizzare il carattere di Lily, parlerà di lei in questi termini: “Voglio dire, Lily non riesce a dire cose semplici come ‘grazie’ o ‘preferirei di no’ o ‘potrei avere dell’altro caffè?” […] “Non voglio essere cattiva con Lily, sto solo evidenziando qualcosa di interessante. Qualcuno tiene la porta aperta per Lily in un ferramenta e lei pensa di dover affrontare una situazione estremamente complessa”. Quindi, sì, forse è sempre un po’ tardi per scegliere, perché il punto cristallino di una scelta non esiste. E quando si critica Didion perché i suoi personaggi, più che vivere, sembrano attraversare la vita, mi viene da pensare che sia esattamente così; ma non è ciò che facciamo tutti, se non vogliamo cedere all’accanimento delle intenzioni?

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