'Final Portrait', la recensione | Rolling Stone Italia
Recensioni

‘Final Portrait’ è un esercizio di stile

Un film consigliato ad appassionati di arte moderna, o intelligenze sopra la media. Un prodotto non riuscito o riuscito a suo modo.

Final Portrait è il quinto lavoro di Stanley Tucci dietro la macchina da presa. Il film narra l’atto conclusivo della vita dell’artista svizzero, pittore e scultore dall’indole complessa Alberto Giacometti.

L’oggetto semantico dell’idea di Tucci è rappresentare l’incompiutezza dell’arte, la sua eterna trasformazione in “qualcos’altro”. In questo senso Final Portrait è un lavoro riuscito. Essenziale, freddo nei tratti fotografici e nelle emozioni degli attori, ha un suo stile definito. I pregi, girando il lato della moneta, diventano al contempo i peggiori difetti del film.

Non appassionano i personaggi, non appassiona la storia, non appassionano le tematiche. Non è un film riuscito, esattamente perché vive della stessa sofferenza creativa del suo protagonista, tormentato nell’illusione dell’arte. Il film ne prende le sembianze e trasforma un oggetto “finito” come un film in un esercizio di stile. E come tale va trattato.

Geoffrey Rush è fisicamente simile a Giacometti, anche se il profilo ne esce a tratti stereotipato e manierista. Un attore australiano non può impersonare un artista svizzero-italiano. Armie Hammer, che nel film interpreta l’oggetto e il soggetto artistico ritratto da Giacometti, non coinvolge lo spettatore e nemmeno probabilmente dovrebbe, perché l’idea di sceneggiatura è tratteggiare i contorni dei personaggi e della narrativa, non delinearli.

Un film consigliato ad appassionati di arte moderna, o intelligenze sopra la media. In generale un prodotto non riuscito o riuscito a suo modo, ma nella spirale del gioco di incompiutezza dell’arte di Giacometti, il lavoro di Stanley Tucci tesse un disegno speculare di “non-finito” rendendo i contorni dovuti all’opera dell’artista.

Nota di merito: momenti di grazia in piccoli quadri musicali di Parigi.
Nota di demerito: la fotografia scarna seppur dettagliata riflette i limiti del digitale nella resa cromatica.
Nota di demerito due: l’immancabile traduzione sballata del titolo originale, da Final Portrait a L’arte di essere amici. Pena di morte unica salvezza per gli uffici marketing dei distributori italiani.