Don Delillo - Zero K | Rolling Stone Italia
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Don Delillo – Zero K

Leggi la recensione del nuovo romanzo di Delillo edito Einaudi su RollingStone.it

La criogenesi, ovvero il procedimento di farsi ibernare al momento della morte, in attesa che gli sviluppi della scienza consentano di far tornare a vivere almeno la mente – dentro un altro corpo, dentro lo stesso corpo guarito dalle malattie, dentro un barattolo di vetro come il Richard Nixon di Futurama o il cervello di Hans Delbrück, “scienziato e santo” di Frankenstein Jr. – è un topos contemporaneo abbastanza trito, nella sua pseudoscientificità e negli aspetti prosaici che ricordano la catena del freddo della ristorazione. La criogenesi, a dispetto del nome sci-fi, non è più tanto futuristica nella realtà – l’Alcor Life Extension Foundation, azienda situata a Scottsdale, Arizona, conserva ormai da diversi anni i corpi di 144 clienti (e conserverà quello del dj e produttore Steve Aoki) che hanno potuto permettersi il costosissimo procedimento. Nella fiction, poi, è proprio roba vecchia – Han Solo nella grafite; Austin Powers; Captain America; pure Biancaneve era caduta in uno stato simile per colpa della mela avvelenata, a ben vedere.Ma siccome tutto ciò che Don DeLillo produce, almeno a partire da La stella di Ratner (1976), prende immediatamente le sembianze di un testo giunto dal futuro – dispaccio da un’umanità di esseri più avanzati, ma leggermente affetti da Asperger, che non vogliono rinunciare a una continua, sobria speculazione filosofica – ecco che con Zero K, ultimo romanzo del quasi ottantenne autore americano, la criogenesi torna prepotentemente a essere cool. Nel romanzo, una fittizia versione della sopracitata Alcor, di nome Convergence, isolata tra le steppe sconfinate del Kazakistan, promette vita eterna a quanti decidano (sempre pagando profumatamente) di abbracciarne il credo scientifico-religioso, e abbandonare una Terra destinata certamente all’Apocalisse per “ampliare i confini di ciò che significa essere umani”. Zero K si apre con un figlio, Jeffrey Lockhart (il narratore) convocato da un padre, Ross, miliardario da cover di Newsweek, per dare l’estremo saluto (solo un arrivederci, quindi, forse) alla seconda moglie Artis, più giovane e affetta da sclerosi multipla. Artis sta per essere disassemblata e criogenizzata, nell’attesa di tornare un giorno in cui l’umanità avrà guarito la Terra, o viceversa, recuperare tutte le sue memorie ed esperienze, e vivere ancora. Forse vivere per sempre.Primo problema: Ross e Jeffrey hanno rinunciato a parlarsi da anni. Secondo problema: il vero senso del viaggio di Jeffrey è meno affettivo e più tecnico di quanto sembri. Ross sostiene di voler accompagnare Artis nel viaggio verso il futuro, ma ha bisogno di qualcuno, suo figlio, a cui passare le consegne del proprio business. Addirittura, Artis suggerisce a Jeffrey l’idea di unirsi a loro, in un quadretto familiare di morte che ha qualcosa di folle ed erotico al tempo stesso.Jeffrey è tenuto al sicuro dal proprio scetticismo. Ma Ross, cosa deciderà di fare? Due terzi del romanzo si svolgono dentro questa opprimente, asettica struttura sotterranea a metà tra un istituto di ricerca e un’installazione di land art. Lo sguardo di Jeffrey e i rari scambi con il padre (quando arriva finalmente un vero scontro tra i due, abbiamo atteso un barlume di vita per troppe pagine) faticano a rendere meno alienante la lettura, tra scienziati impassibili e “accompagnatrici” quasi robotiche, sequele di porte misteriose che, forse, non conducono da nessuna parte, e pannelli che trasmettono in loop, senza audio, scenari di devastazione naturale e umana.Lo stile di DeLillo è spesso descritto come “freddo” anche dai suoi ammiratori più sinceri, ma mentre in Rumore bianco, per esempio – anche lì una coppia si interrogava sulla paura della morte, e il suo significato – l’osservazione del nostro contemporaneo era costantemente sostenuta da uno humour asciutto e inconfondibile, gli ultimi romanzi di questo eroe del postmoderno sono apparsi sempre più seri, e Zero K è da intendere forse come il culmine di questa (apparente) disaffezione verso il genere umano.Si torna a respirare un po’ nell’ultima (ma non ultimissima) parte, ambientata a New York, che per un breve, ma bellissimo tratto di strada e di romanzo si svolge a bordo di un taxi. Sentirsi descrivere il nostro mondo dallo stile ancora lucidissimo di Don DeLillo, per il breve spazio che questo genio oggi è disposto a concederci, è ancora un’esperienza che probabilmente nessun altro sa eguagliare, nella letteratura contemporanea.

Leggi la recensione del nuovo romanzo di Delillo edito Einaudi su RollingStone.it

La criogenesi, ovvero il procedimento di farsi ibernare al momento della morte, in attesa che gli sviluppi della scienza consentano di far tornare a vivere almeno la mente – dentro un altro corpo, dentro lo stesso corpo guarito dalle malattie, dentro un barattolo di vetro come il Richard Nixon di Futurama o il cervello di Hans Delbrück, “scienziato e santo” di Frankenstein Jr. – è un topos contemporaneo abbastanza trito, nella sua pseudoscientificità e negli aspetti prosaici che ricordano la catena del freddo della ristorazione. La criogenesi, a dispetto del nome sci-fi, non è più tanto futuristica nella realtà – l’Alcor Life Extension Foundation, azienda situata a Scottsdale, Arizona, conserva ormai da diversi anni i corpi di 144 clienti (e conserverà quello del dj e produttore Steve Aoki) che hanno potuto permettersi il costosissimo procedimento. Nella fiction, poi, è proprio roba vecchia – Han Solo nella grafite; Austin Powers; Captain America; pure Biancaneve era caduta in uno stato simile per colpa della mela avvelenata, a ben vedere.

Ma siccome tutto ciò che Don DeLillo produce, almeno a partire da La stella di Ratner (1976), prende immediatamente le sembianze di un testo giunto dal futuro – dispaccio da un’umanità di esseri più avanzati, ma leggermente affetti da Asperger, che non vogliono rinunciare a una continua, sobria speculazione filosofica – ecco che con Zero K, ultimo romanzo del quasi ottantenne autore americano, la criogenesi torna prepotentemente a essere cool.
Nel romanzo, una fittizia versione della sopracitata Alcor, di nome Convergence, isolata tra le steppe sconfinate del Kazakistan, promette vita eterna a quanti decidano (sempre pagando profumatamente) di abbracciarne il credo scientifico-religioso, e abbandonare una Terra destinata certamente all’Apocalisse per “ampliare i confini di ciò che significa essere umani”. Zero K si apre con un figlio, Jeffrey Lockhart (il narratore) convocato da un padre, Ross, miliardario da cover di Newsweek, per dare l’estremo saluto (solo un arrivederci, quindi, forse) alla seconda moglie Artis, più giovane e affetta da sclerosi multipla. Artis sta per essere disassemblata e criogenizzata, nell’attesa di tornare un giorno in cui l’umanità avrà guarito la Terra, o viceversa, recuperare tutte le sue memorie ed esperienze, e vivere ancora. Forse vivere per sempre.

Primo problema: Ross e Jeffrey hanno rinunciato a parlarsi da anni. Secondo problema: il vero senso del viaggio di Jeffrey è meno affettivo e più tecnico di quanto sembri. Ross sostiene di voler accompagnare Artis nel viaggio verso il futuro, ma ha bisogno di qualcuno, suo figlio, a cui passare le consegne del proprio business. Addirittura, Artis suggerisce a Jeffrey l’idea di unirsi a loro, in un quadretto familiare di morte che ha qualcosa di folle ed erotico al tempo stesso.

Jeffrey è tenuto al sicuro dal proprio scetticismo. Ma Ross, cosa deciderà di fare? Due terzi del romanzo si svolgono dentro questa opprimente, asettica struttura sotterranea a metà tra un istituto di ricerca e un’installazione di land art. Lo sguardo di Jeffrey e i rari scambi con il padre (quando arriva finalmente un vero scontro tra i due, abbiamo atteso un barlume di vita per troppe pagine) faticano a rendere meno alienante la lettura, tra scienziati impassibili e “accompagnatrici” quasi robotiche, sequele di porte misteriose che, forse, non conducono da nessuna parte, e pannelli che trasmettono in loop, senza audio, scenari di devastazione naturale e umana.

Lo stile di DeLillo è spesso descritto come “freddo” anche dai suoi ammiratori più sinceri, ma mentre in Rumore bianco, per esempio – anche lì una coppia si interrogava sulla paura della morte, e il suo significato – l’osservazione del nostro contemporaneo era costantemente sostenuta da uno humour asciutto e inconfondibile, gli ultimi romanzi di questo eroe del postmoderno sono apparsi sempre più seri, e Zero K è da intendere forse come il culmine di questa (apparente) disaffezione verso il genere umano.

Si torna a respirare un po’ nell’ultima (ma non ultimissima) parte, ambientata a New York, che per un breve, ma bellissimo tratto di strada e di romanzo si svolge a bordo di un taxi. Sentirsi descrivere il nostro mondo dallo stile ancora lucidissimo di Don DeLillo, per il breve spazio che questo genio oggi è disposto a concederci, è ancora un’esperienza che probabilmente nessun altro sa eguagliare, nella letteratura contemporanea.

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