Battles - La Di Da Di | Rolling Stone Italia
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Battles – La Di Da Di

Dopo l’abbandono di Tyondai Braxton, i Battles c’erano sembrati un po’ senza direzione: Atlas, per tutti il loro singolo di maggior successo –l’unico – aveva generato delle aspettative che sembravano fatte apposta per essere disattese. Senza il tipo che si occupava di “fare le vocine” e gestire i campioni vocali, il passo naturale verso la […]

Dopo l’abbandono di Tyondai Braxton, i Battles c’erano sembrati un po’ senza direzione: Atlas, per tutti il loro singolo di maggior successo –l’unico – aveva generato delle aspettative che sembravano fatte apposta per essere disattese. Senza il tipo che si occupava di “fare le vocine” e gestire i campioni vocali, il passo naturale verso la forma canzone vera e propria era avvenuto grazie a badilate di featuring e grandi nomi (Gary Numan e Kazu Makino dei Blonde Redhead su tutti).Purtroppo, però, Glass Drop non ha mai convinto del tutto, anzi, è sempre sembrato il disco monco di una band che aveva una specificità, una sua ragion d’essere, e che invece aveva scelto di normalizzarsi finendo così per perdere la propria identità. E dall’avvento di Internet in poi, l’identità è diventata il “genere musicale” più importante. L’unico in grado di fare la differenza. In musica, poi, la cosa peggiore che ti può capitare è proprio provarci senza riuscirci: cercare di compiere un salto in avanti per poi ritrovarsi al punto di partenza, con l’aggravante di avere, in parte, minato la propria credibilità. La Di Da Di è arrivato quindi un po’ in sordina, senza grande hype, ma portandosi in dote delle domande: cosa faranno i Battles ora? Continueranno a spingere nella stessa direzione? La risposta è talmente semplice da sembrare quasi banale: i Battles hanno ricominciato a suonare come i Battles. Hanno fatto tabula rasa, sono ripartiti dalla raccolta dei loro primi EP, eliminato ogni accenno di canzone e si sono rimessi a fare math rock. Niente di nuovo o di particolarmente memorabile, parliamoci chiaro, ma ci sono band che sembrano essere state formate apposta per fare una sola cosa e farla bene, e in questo senso i Battles sono un po’ come i Ramones.Cambiare non dovrebbe mai essere un obbligo, l’evoluzione spesso passa anche per la capacità di cristallizzare il proprio stile e renderlo quasi un nuovo standard. Ian Williams, John Stanier e Dave Konopka hanno finalmente capito che si può continuare a essere incisivi senza per forza inseguire il pop e che i Battles funzionano meglio come gruppo per pochi, ma non per pochissimi, appassionati di un approccio che da sempre unisce creatività e virtuosismo. E poco importa se le grandissime platee non saranno mai affare loro, vi basterà leggere il loro nome tra i tanti del cartellone di un festival per avere la consapevolezza di un grande concerto in arrivo. E questo, lo ribadiamo, non è proprio da tutti. Bentornati.

Dopo l’abbandono di Tyondai Braxton, i Battles c’erano sembrati un po’ senza direzione: Atlas, per tutti il loro singolo di maggior successo –l’unico – aveva generato delle aspettative che sembravano fatte apposta per essere disattese. Senza il tipo che si occupava di “fare le vocine” e gestire i campioni vocali, il passo naturale verso la forma canzone vera e propria era avvenuto grazie a badilate di featuring e grandi nomi (Gary Numan e Kazu Makino dei Blonde Redhead su tutti).

Purtroppo, però, Glass Drop non ha mai convinto del tutto, anzi, è sempre sembrato il disco monco di una band che aveva una specificità, una sua ragion d’essere, e che invece aveva scelto di normalizzarsi finendo così per perdere la propria identità. E dall’avvento di Internet in poi, l’identità è diventata il “genere musicale” più importante. L’unico in grado di fare la differenza. In musica, poi, la cosa peggiore che ti può capitare è proprio provarci senza riuscirci: cercare di compiere un salto in avanti per poi ritrovarsi al punto di partenza, con l’aggravante di avere, in parte, minato la propria credibilità. La Di Da Di è arrivato quindi un po’ in sordina, senza grande hype, ma portandosi in dote delle domande: cosa faranno i Battles ora? Continueranno a spingere nella stessa direzione? La risposta è talmente semplice da sembrare quasi banale: i Battles hanno ricominciato a suonare come i Battles. Hanno fatto tabula rasa, sono ripartiti dalla raccolta dei loro primi EP, eliminato ogni accenno di canzone e si sono rimessi a fare math rock. Niente di nuovo o di particolarmente memorabile, parliamoci chiaro, ma ci sono band che sembrano essere state formate apposta per fare una sola cosa e farla bene, e in questo senso i Battles sono un po’ come i Ramones.

Cambiare non dovrebbe mai essere un obbligo, l’evoluzione spesso passa anche per la capacità di cristallizzare il proprio stile e renderlo quasi un nuovo standard. Ian Williams, John Stanier e Dave Konopka hanno finalmente capito che si può continuare a essere incisivi senza per forza inseguire il pop e che i Battles funzionano meglio come gruppo per pochi, ma non per pochissimi, appassionati di un approccio che da sempre unisce creatività e virtuosismo. E poco importa se le grandissime platee non saranno mai affare loro, vi basterà leggere il loro nome tra i tanti del cartellone di un festival per avere la consapevolezza di un grande concerto in arrivo. E questo, lo ribadiamo, non è proprio da tutti. Bentornati.

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