'Al Largo', la recensione | Rolling Stone Italia
Recensioni

‘Al largo’ è un enigma inquietante

Il libro dell'esordiente Wyl Menmuir trasforma le cospirazioni kafkiane con l'inquietudine di oggi

Foto IPA

Non è facile scrivere una critica a un libro così enigmatico e giocato su stile e atmosfera, senza spoilerare. Mettiamola così: c’è un colpo di scena nel finale, per quanto ambiguo anche quello, che rimette in discussione tutto. Senza questo peso, proviamo a raccontare perché Al largo è così interessante. L’ambientazione è un paesino di pescatori della Cornovaglia, il cui mare è inquinato e sterile. Al largo, scheletri di enormi navi container abbandonate segnano un confine invisibile, oltre cui è vietato spingersi.

Tra gli abitanti ancorati a questo scenario scorrono il sospetto e la superstizione. Un uomo di nome Timothy, proveniente dalla città, acquista una casa disabitata: il precedente proprietario, Perran, è annegato in circostanze poco chiare. Se tutti gli abitanti osservano i movimenti di Timothy da dietro le tende, è Ethan, amico ed ex capitano di Perran, a sviluppare un’autentica ossessione verso l’estraneo. Da Wicker Man a Cane di paglia, la provincia britannica non ha mai visto di buon occhio chi arriva a disturbare la quiete apparente di una società chiusa.

L’esordiente Menmuir ha il merito di aggiornare questo sottogenere cospiratorio/kafkiano con le inquietudini di oggi: Brexit, paura dell’immigrazione, inquinamento e morte dei mari.