Ypsigrock, la tappa obbligata dell'indie-rail estivo | Rolling Stone Italia
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Ypsigrock, la tappa obbligata dell’indie-rail estivo

Grazie a una curatissima line-up (dalla band più hype dell'anno, le Savages, ai post raver Crystal Castles), il festival di Castelbuono diventa mitico

Savages all'Ypsigrock, foto di Roberto Panucci

Savages all'Ypsigrock, foto di Roberto Panucci

«Suoniamo da più di vent’anni, abbiamo fatto concerti in tutto il mondo ma è la prima volta che veniamo in Sicilia, grazie, è stato bellissimo»: così il frontman dei veterani del grunge Mudhoney saluta sia il pubblico sia la premiata ambizione di un festival – Ypsigrock, alla sua ventesima edizione – che è riuscito a trasformare Castelbuono in una tappa obbligata dell’indie-rail estivo.

Tre giorni, tre palchi – oltre alla bellissima Piazza Castello, quest’anno si suonava anche dentro una ex chiesa e in un chiostro – un camping, cibo super e locals che hanno preso molto bene questa moltiplicazione dello struscio (già di norma affollatissimo) per le strade del paese tanto da ospitare un after party per pochi intimi nel mitico Cin Cin Bar del centro. Ma da soli l’ospitalità e il “beautiful landscape” delle Madonie non basterebbe al successo di un evento del genere se non ci fosse il grande lavoro di programmazione artistica e di produzione dei ragazzi che organizzano Ypsirock.

Anche quest’anno sono riusciti a mettere in piedi una line up con tutti gli ingredienti giusti per un festival, ovvero: la band indie più hype del 2016, le Savages, con una delle migliori cantanti performer che c’è in circolazione, Jehnny Beth; l’elettronica da palco (non da club) degli epici Luh e dei post raver Crystal Castles, colpevoli questi ultimi di aver trasformato la loro nuova cantante in una vocalist da discoteca; il rock, quello con le chitarra, dei già citati Mudhoney, dei The Vaccines e dei Minor Victories (il super gruppo con membri di Slowdive, Mogwai e Editors si è talmente divertito che abbiamo assistito al famoso lancio delle bacchette da parte del batterista, pratica anni ’90 ormai in disuso ma sempre commovente).

Il vero valore aggiunto di un festival come questo è però l’attenzione e lo spazio dato a band meno note – molto spesso italiane – che gli permette di accumulare anno dopo anno un’autorevolezza riconosciuta sia dai musicisti che dal pubblico: far suonare i torinesi Niagara sul main stage con un live all’altezza dei “colleghi” Animal Collective e Liars è stata una scelta molto coraggiosa, che ha pagato (è stato forse il concerto più sorprendete di questa edizione, Savages escluse). Altre scelte giuste sono state quelle di aprire l’ex Chiesa del Crocifisso alla piano music contaminata di post rock di Federico Albanese e al dream pop accelerazionista di LIM (accompagnato da visual bellissimi di Karol Sudolski). Citazioni d’obbligo per l’unica presenza hip hop, il fichissimo rapper inglese Loyle Carner, e per le ballad desert-rock dei Giant Sand: per la band texana di Howe Gelb questo è stato annunciato come l’ultimo tour della carriera, quello di domenica è stato il loro ultimo concerto italiano. E sono anche queste storie che rendono un festival mitico.

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