"Wish You Were Here", la storia del nono album dei Pink Floyd | Rolling Stone Italia
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“Wish You Were Here”, la storia del nono album dei Pink Floyd

Inghiottiti dal mostro dell’industria musicale, i Floyd lanciarono 41 anni fa un grido paranoico che è anche un addio all’ex leader del gruppo, sempre più deteriorato

Un dettaglio della copertina di "Wish You Were Here", il nono album dei Pink Floyd

Un dettaglio della copertina di "Wish You Were Here", il nono album dei Pink Floyd

USCITO IL 13 SETTEMBRE 1975

The Dark Side of the Moon aveva portato i Pink Floyd a un successo planetario. Ma il tour era stato un’esperienza profondamente alienante, specialmente per Waters, che aveva avuto il sua primo, terrificante confronto con il pubblico da stadio. «Roger diventava sempre più irascibile. Noi diventavamo sempre più vecchi», ha dichiarato Mason. «C’era molta più tensione tra noi». Una parte importante di quella tensione era il deterioramento sempre più profondo del loro ex frontman, Syd Barrett, il cui ultimo tentativo di tornare in studio di registrazione, alla metà del 1974, aveva sortito esiti disastrosi. I Pink Floyd avrebbero incanalato il loro tormentato rapporto con la fama appena raggiunta e la loro tristezza per la dissoluzione di Barrett in Wish You Were Here, un grido d’amore pieno di rimorsi lanciato da dentro il mostro dell’industria musicale, che raggiunge un raro equilibrio tra tormento ed emozioni, solitudine e fratellanza. È quindi sorprendente, considerando il tono drammatico di Wish You Were Here, che i Floyd non avessero idea di che tipo di disco volessero fare quando hanno iniziato a lavorare all’album. Mason lo definisce un album creato «dal nulla». Le tensioni tra Waters e Gilmour erano al culmine, con Mason che faceva da mediatore e paciere, descrivendosi come il Neville Chamberlain del gruppo. Anni dopo, scherzando sugli umori di quel momento, Waters ha detto che l’album avrebbe potuto anche chiamarsi Wish You Weren’t Here: “vorrei che non fossi qui”.

Un dettaglio della copertina di "Wish You Were Here", il nono album dei Pink Floyd

Un dettaglio della copertina di “Wish You Were Here”, il nono album dei Pink Floyd

Le prime sessioni agli Abbey Road Studios, iniziate nell’inverno 1975, sono state disorganiche. I membri hanno lavorato separatamente sulle singole parti, senza una direzione generale e senza chimica creativa. Gilmour voleva concentrarsi sull’esplorazione dei suoni, rimpolpando versioni di due brani che il gruppo aveva suonato nel recente tour in Inghilterra e in Francia –You’ve Gotta Be Crazy e Raving and Drooling – e un omaggio a Barrett dal titolo Shine On You Crazy Diamond. Waters voleva creare qualcosa che avesse più coesione sul versante dei testi, o, per usare le sue parole, «un’espressione molto più universale delle mie emozioni riguardo all’assenza». L’unica di quelle canzoni a entrare nell’album è stata Shine On You Crazy Diamond. Basata su uno scarno tema blues di quattro note, che Gilmour ha creato nella sala prove di King’s Cross nel 1974, la suite in nove parti si è sviluppata fino a raggiungere 20 minuti, man mano che la band la elaborava con l’ingegnere del suono Brian Humphries durante la primavera (Alan Parsons, l’ingegnere di Dark Side, aveva lasciato la band per seguire altri progetti, nda). Per esaltare il suono della chitarra, Humphries ha registrato Gilmour in un grande studio di Abbey Road usato solitamente dai musicisti classici. Wright suonava il piano, il sintetizzatore e l’organo; è stato chiamato il sassofonista Dick Parry; e due cantanti americane, Carlena Williams e Venetta Fields, hanno prestato le loro calde voci. Il testo di Waters catturava in modo toccante «l’indefinibile, inevitabile malinconia per la scomparsa di Syd», come ha dichiarato lui stesso. Concepito in origine come una suite che avrebbe occu- pato un intero lato dell’album, il brano è stato diviso in due e collocato in apertura e in chiusura del disco. Il senso di perdita di quel brano ha alimentato le canzoni corrosive che Wright ha scritto mentre progredivano le sessioni.
Basata sulla linea vibrante del sintetizzatore di Wright, Welcome to the Machine è una dissezione di quello che Waters definisce «il mostruoso tritacarne che ci mastica e ci sputa fuori». Per Have a Cigar, un altro brano al vetriolo, Gilmour e Waters si sono affaticati senza successo per entrare nel personaggio di un discografico rapace. Alla fine Roy Harper, cantante folk inglese che stava registrando ad Abbey Road, si è offerto di provarci ed è riuscito a infondere il necessario sarcasmo all’interpretazione: «Tutti pensavano fosse Roger», ricorda Harper, «ci sono rimasto un po’ male». Nonostante le tensioni, la collaborazione tra Waters e Gilmour nel brano che dà il titolo all’album, un’altra ode al compagno caduto, ha reso Wish You Were Here uno dei pezzi più amati dal pubblico. Gilmour l’ha composto su una chitarra a dodici corde, suonando un’introduzione penetrante, di vaga ascendenza country, che porta in primo piano il testo di Waters e la sua interrogazione della realtà. Quando Barrett si è presentato ad Abbey Road mentre il gruppo riascoltava Shine On, era così malmesso che all’inizio nessuno lo aveva riconosciuto. «Si è alzato e ha detto: “Bene, quand’è che registro la mia parte di chitarra?”», ha ricordato Wright anni dopo, «e noi abbiamo detto: “Ci dispiace Syd, le parti di chitarra sono già state completate”».

cover pink floyd

Per l’elaborata confezione dell’album, Storm Thorgerson ha creato diverse immagini che sottolineano la posizione anticapitalistica dei testi; la più celebre è la fotografia in copertina, con due uomini che si stringono la mano e uno dei due prende fuoco. (Per scattare la fotografia, hanno dato davvero fuoco allo stuntman, che indossava un abito trattato con il ritardante, nda). Sigillato con una pellicola nera, l’album è stato presentato ai fan come l’incarnazione visiva delle riflessioni di Waters sul tema dell’assenza. Ovviamente ha conquistato il primo po- sto in classifica in varie parti del mondo, dimostrando che alla metà degli anni ’70 l’assenza si vendeva bene.

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