Sopravvivere agli anni Zero. La nostra intervista ai Subsonica | Rolling Stone Italia
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Sopravvivere agli anni Zero. La nostra intervista ai Subsonica

Con "Una nave in una foresta" tornano in ballo per la settima volta, pronti a un autunno di concerti e chilometri in furgone. Sempre senza superare i '90

I Subsonica, foto di Francesco Prandoni per concessione di Punk for Business - evento Samsung

I Subsonica, foto di Francesco Prandoni per concessione di Punk for Business - evento Samsung

La prima sortita dei Subsonica nel 2014 è stata al Mondo Ichnusa, a Oristano, a luglio. Davanti a 50mila persone, salendo sul palco dopo Salmo: un po’ come andare a un festival in Germania e suonare dopo i Rammstein. Forse i Subsonica di qualche anno fa avrebbero avuto qualche problema. Ma oggi, onestamente, sono un treno in corsa. Viene il dubbio che Lazzaro non sia stata scritta solo per un Paese che si deve svegliare, ma anche per loro stessi. I 50mila non riescono nemmeno a fare selfie e video, sono troppo impegnati a ballare. Lo staff della band è euforico come i tifosi che vedono la squadra stravincere. Chissà cosa è scattato in un gruppo del quale si poteva anche pensare: beh, in fondo, il loro lo hanno fatto.

Da quanto siete insieme?
Casacci: Diciotto anni e sette dischi. E una marea di concerti, attorno ai mille.

E ritrovandovi per questo disco, al varo di Una nave nella foresta, cosa vi siete detti?
Casacci: Che ci sarebbe piaciuto gettare un’ancora nel nostro sound originario. Per noi gli anni ’90 non sanno di vecchio e logoro. Al contrario degli anni Zero che hanno rappresentato il nulla più totale. Lo dico anche da direttore di un festival, il Traffic di Torino. Se vuoi fare migliaia di spettatori non pensi ai gruppi degli Zero. Ok, Strokes, Arcade Fire, Arctic Monkeys e un paio di nomi di musica elettronica, ma poi basta, è il nulla.

E come mai?
Casacci: Gli anni Zero hanno visto una evidente desertificazione di immaginario. Non solo per motivi politici, è stata proprio un’attitudine generale, specie in Italia. La creatività è rimasta sommersa all’interno dei generi, senza trovare la forza d’urto per uscirne.

In 18 anni vi è mai capitato di pensare che l’Italia vi dà soddisfazioni, sì, ma forse è anche un ambito difficile, stretto? Che alla fine tocca sempre passare per Sanremo?
SAM: Più per le strutture che per il pubblico. Siamo culturalmente in sudditanza, ogni produzione italiana è messa in secondo piano.

Parlando di strutture, perché non suonate negli stadi ogni tanto?
Casacci: Forse lo faremo. Ma sono uno stress e nemmeno convengono tanto. Servono soprattutto a far colpo su voi dei media.

Avete un seguito nutrito, ma è difficile dire che avete fatto scuola, come capofila di un rock elettronico con vista sulla dance.
BOOSTA: Non ci siamo mai sentiti particolarmente soli, né particolarmente in compagnia. Ma alla fine siamo fortunati. Possiamo ancora suonare davanti a tanta gente che vuole condividere la nostra musica con noi, e tanto basta, non ci perdiamo in ragionamenti sulla scena.

Ammetto che sono ragionamenti da critico.
BOOSTA: Dei quali non ci frega un cazzo.

Ok, è legittimo. Ma al di là delle mene giornalistiche, far parte di una “scena” a volte serve anche a chi ci sta dentro.
SAM: Vero. In effetti noi siamo ciò che siamo perché c’era un movimento che andava in una direzione; oggi succede con l’hip-hop. Ma la scena da cui proveniamo si è diluita.
casacci Non abbiamo fatto scuola tipo Manuel Agnelli e Godano, anche se poi i loro epigoni non hanno avuto risultati a quell’altezza. D’altronde è difficile imitare la nostra struttura: in Italia i gruppi hanno una figura centrale più i gregari. Noi siamo un particolare amalgama creativo di cinque personalità diverse.

Questo vi viene abbastanza riconosciuto. È difficile tenere assieme cinque teste pensanti?
VICIO: A un certo punto si capisce di essere abbastanza forti e inseriti nella dinamica del gruppo da saper fare un passo indietro. O fare il passo avanti quando serve.
NINJA: E c’è un naturale equilibrio nella suddivisione dei ruoli. Non per assegnazione, ci viene spontaneo.

Avete mai rischiato di sciogliervi?
BOOSTA: Lungo sette dischi, facciamo, sei volte? Presumo di essere quello col record di scazzi. Ma quando cinque persone condividono spazi ristretti come quelli dei tour può essere pesante. La decompressione tra fasi Subsonica e il resto delle nostre vite ha favorito il mantenimento dell’amicizia.

Botte, mai?
Casacci: Non più.

Ah, quindi una volta sì.
BOOSTA: Tu hai cercato di colpirmi con un registratore a quattro piste.
Casacci: Mi è partito di mano.
VICIO: Risse mai, però tanti “Hai rotto i coglioni”. Parti integranti della magia!

 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre di Rolling Stone

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