Musica non troppo celestiale: Rick Moody sul punk-rock | Rolling Stone Italia
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Musica non troppo celestiale: Rick Moody sul punk-rock

Lo scrittore ci racconta il movimento degli anni '90 e la perdita degli ideali, svenduti per la fama. E il suo ultimo romanzo, più coraggioso che mai

Musica non troppo celestiale: Rick Moody sul punk-rock

Rick Moody è autore di numerosi romanzi e saggi, Tempesta di ghiaccio, I rabdomanti, Le quattro dita della morte. Il suo ultimo libro, Hotel del Nord America è un curioso esperimento: racconta la storia disperata del miglior recensore di motel sul web, attraverso le sue recensioni. Tutta la carriera letteraria di Moody è legata alla musica, quella che ha suonato come batterista, quella di cui ha scritto come critico e narratore. Nel 2015 è uscito Musica celestiale, una raccolta di tutti i suoi saggi sul tema, dal jazz degli anni ’40 alle sperimentazioni di Arvo Pärt, passando per i Velvet Underground. Lo abbiamo incontrato a New York e ci è sembrato giusto partire dalla musica.

Qual è il tuo rapporto con il movimento punk-rock cominciato a fine anni ’80 e proseguito per quasi tutti i 90’s? Parliamo di band come Green Day e Rage Against the Machine, che, almeno inizialmente, erano socialmente impegnate.
Tendo a non considerare il punk degli anni ’80 e ’90 veramente punk. I Nirvana hanno sicuramente tratto qualcosa dal punk, così come i Pixies, ma non riesco a considerare i Nirvana come una band punk. Le altre band di quel periodo, i Green Day, gli Offspring, i Rancid eccetera… Nient’altro che imitazioni. Il punk è esistito dal 1975 al 1979 o giù di lì. Non voglio dire che non esista della grande, grandissima musica prodotta dopo il periodo del punk: Gang of Four, Public Image Ltd, Slits, Hüsker Dü, Black Flag, Minutemen, Bad Brains, tutta ottima musica. Ma credo che all’inizio dei 90’s le cose abbiano cominciato a complicarsi in termini di nomenclatura.

Riformulo: cos’è “punk” dopo il periodo del punk?
Il termine “punk”, con tutto il suo bagaglio morale di musica autoprodotta, indipendente e fuori dal sistema, si può applicare a certe band che abbracciavano un credo fortemente anti-capitalista, come i Queers, i Boredoms, i Bastro, la No-Neck Blues Band, persino a band che a livello di suono col punk non hanno nulla a che vedere, i Godspeed You! Black Emperor. Ma parliamo sempre di approccio, non di genere musicale. Il suono del punk è morto nel momento in cui è uscito Smells Like Teen Spirit e davvero, con tutta la buona volontà del mondo, non può essere ricreato oggi. Ho amato e amo ancora Bulls on Parade dei Rage Against the Machine, ma non me ne è mai fregato un cazzo dei Green Day, dei Red Hot Chili Peppers o del resto di quella roba lì. Negli anni ’90, i Sonic Youth o gli Swans erano band interessanti, ma quello che è passato alla storia come punk americano, diciamocelo, era punk da Walmart, roba da supermercato.

Però alcune di quelle band sono riuscite in qualche modo a durare due decadi, mentre altre, più “serie”, hanno chiuso i battenti. Com’è successo?
Non sono sicuro che la sopravvivenza sia un indicatore di serietà e di solidità di intenti. I Clash, se ci pensi, sono durati solamente otto anni, eppure hanno lasciato un segno piuttosto evidente. I Sex Pistols sono durati a malapena tre anni, eppure hanno inciso uno dei dischi più importanti del rock&roll di quel periodo. Nemmeno i Velvet Underground sono durati molto a lungo.

I Beatles.
I Beatles! Vedi? Forse il punto è che i grandi artisti sono in grado di capire da soli qual è il loro tempo e, quando quel tempo è passato, sono capaci di chiudere un capitolo e dedicarsi a qualcosa di nuovo, di reinventarsi, di mettere il proprio talento musicale al servizio di una nuova innovazione. Chi fa di tutto per rimanere attaccato all’immagine mitologica dei primi tempi, quella che ha avuto successo – diciamo gli U2, o i Deep Purple, per non ripetere sempre gli stessi nomi – finisce inevitabilmente per cominciare a essere una parodia di se stesso.

Quegli anni sembravano l’inizio di un forte movimento anti-sistema.
Anche se poi in realtà erano immersi nel sistema, tra sponsorizzazioni, apparizioni tv e tour miliardari, più di chiunque altro. Ma questo, se vogliamo, poteva far parte del gioco, anche se, di nuovo, li chiamava fuori dalla definizione di “punk”.

Esatto. Poi le cose sono peggiorate ulteriormente. Cos’è successo? Com’è che sono diventati un fenomeno pop-alternativo e rock FM?
I Rage Against the Machine all’inizio passavano un messaggio politico molto potente, soprattutto grazie all’attivismo di Zack de la Rocha, e questa bisogna riconoscere che è stata la loro forza. La musica pop, sotto molti aspetti, ha smesso di portare un messaggio politico. Credo che sia soprattutto a causa dei forti legami dell’industria musicale con le multinazionali dell’intrattenimento, che non sono mai state note per sporcarsi le mani o trasmettere messaggi radicali (e contro i propri interessi). Succede spesso che, appena una band entra troppo nel politico, qualcuno ai piani alti si offenda. Non è sempre stato così, ma lo era negli anni ’90 e sicuramente lo è oggi. Ecco perché esistono individui come Justin Bieber o Kid Rock, noti per l’intensa stupidità dei loro messaggi. Non saprei dire come siamo arrivati a questo punto, a questo prendere le distanze a tutti costi dalla politica, che sembra essere diventato un punto d’orgoglio dell’arte. Forse è solo quello di cui la Storia ha bisogno. L’unica cosa che so è che è decisamente deludente – per me e probabilmente per chiunque altro che abbia vissuto e amato il fermento della fine degli anni ’60 e del periodo del punk.

C’è un punto in cui arte (qualsiasi forma sia) e politica devono smettere di coesistere?
Non c’è modo di regolare questo genere di coesistenza. Cultura e politica sono e saranno sempre legate, l’una implicherà sempre l’altra, che lo si voglia ammettere o meno. Non c’è un “fuori” dalla politica così come non c’è un “fuori” dalla cultura. Si può sperare in un diverso Zeitgeist in un particolare periodo, ma non c’è modo di controllarlo, è qualcosa che solamente un despota potrebbe immaginare di fare. Vuoi un esempio? Vladimir Putin sogna di controllare le Pussy Riot! La politica e la cultura sono destinate a collidere e separarsi solo in accordo con le loro tendenze dialettiche, e tutto quello che si può fare, trovandosi in un periodo di collisioni o separazioni sfortunate, è sperare di essere in vita per assistere a un nuovo fermento.

Non ne è rimasto proprio niente?
C’è un po’ di politica nella musica, ma non sembra quasi mai né sincera né troppo spontanea.

Mi sembra in linea con l’evoluzione dei fenomeni di cui abbiamo parlato, no?
Sì. Prendi i Rage Against the Machine, che quest’estate si sono trasformati in Prophets of Rage, già ironicamente soprannominati “Profits of Rage” perché il loro tour sembra essere molto più votato a fare soldi su quanto rimane del catalogo dei Rage piuttosto che a proseguire un messaggio politico di pensiero radicale o a seguire un’evoluzione musicale. Sembra che chiunque abbia la possibilità di vendersi prima o poi lo faccia, senza pensarci troppo. Dopotutto, anche Zack de la Rocha ha quasi 50 anni, ormai. Lo sai che Thom Yorke di recente ha espresso qualche riserva nel dover pensare a un piano di lancio sul web per il nuovo album dei Radiohead? Penso che abbia detto qualcosa tipo: “Sono troppo vecchio per quella roba”.

Insomma, o il successo globale o la coerenza del messaggio. Va così.
Ci sono ancora alcuni giovani cantautori politicamente impegnati e sull’orlo del successo. Che le grosse etichette non li supportino non è una grande sorpresa e nemmeno uno specchio dei tempi. Non producono niente che non contenga una hit già pronta scritta da un team di esperti svedesi. Però, a cercarla bene, la coerenza politica e la sperimentazione esistono ancora, da qualche parte, là fuori.

A proposito, il tuo ultimo romanzo, Hotel del Nord America, è qualcosa di assolutamente sperimentale e coraggioso: come ti è venuta l’idea?
Nel 2009 ho cominciato a scrivere un romanzo sulla storia di un produttore radiofonico ferito durante un bombardamento a Baghdad. Ne ho scritto circa 250 pagine prima di decidere che lo odiavo. In parte perché non ero più sicuro che il concetto di romanzo, vecchio di 150 anni, fosse ancora adeguato a descrivere le stranezze e la complessità della storia presente. David Foster Wallace diceva che la letteratura aveva la tendenza a sopprimere l’idea di televisione. Ecco, mi sembrava che il mio romanzo stesse cercando di sopprimere l’idea di Internet.

C’è alla base un’esperienza personale?
Oh, non sto nemmeno a dirti le mie esperienze con i motel. Però in quel periodo ero in Norvegia con mia moglie. Alloggiavamo in un hotel particolarmente brutto – immagina quanto di peggio puoi trovare in un hotel europeo. Mia moglie suggerisce che io ne scriva una recensione online, cosa che non avevo mai considerato in vita mia. Mentre lo facevo ho pensato: ehi, perché non provare a trarne un romanzo?

C’è qualcosa di estremamente poetico, nelle camere dei motel.
I motel sono posti dove spesso ci si trova da soli, lontani da tutti. Come le navi di Melville e Conrad, piccoli porti franchi di civiltà dove non vale nessuna regola di condotta civile. In quell’isolamento c’è spazio per il desiderio e la commozione e forse anche per la poesia, una volta che lo si sceglie come punto di partenza.