Le cover più belle dello studio Hipgnosis: dai Pink Floyd a Peter Gabriel | Rolling Stone Italia
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Le cover più belle dello studio Hipgnosis: dai Pink Floyd a Peter Gabriel

Aubrey Powell, co-fondatore dello studio, ha raccontato le storie dietro ad alcune delle copertine più iconiche della storia della musica

Le cover più belle dello studio Hipgnosis: dai Pink Floyd a Peter Gabriel

Provate a immaginare il mondo dei dischi senza Hipgnosis, lo studio responsabile delle copertine di Dark Side of The Moon, Houses of the Holy e Technical Ecstasy. Prima del loro lavoro le cover erano quasi esclusivamente fotografie degli artisti. Hipgnosis – co-fondato da Aubrey Powell e Storm Thorgerson – le ha trasformate in una forma d’arte.

Un nuovo libro, Vinyl . Album . Cover . Art: The Complete Hipgnosis Catalogue celebrerà il 50esimo anniversario della compagnia. All’interno ci sono tutte le 373 copertine prodotte dallo studio tra il ’67 e l’82: ad accompagnare le immagini i commenti degli artisti e una prefazione di Peter Gabriel.

«Riesci a vedere lo sviluppo dello studio, come siamo diventati più sofisticati con le foto, con la grafica e con il lettering», ha detto Powell a Rolling Stone. «Non avevamo Photoshop. Facevamo tutto a mano e scattavamo con la pellicola. Un progetto grafico ci teneva impegnati per almeno sei settimane, adesso puoi fare alcune di quelle cover in mezza giornata».

La cosa di cui Powell è più orgoglioso è la creatività condivisa tra lui e Storm Thorgerson, morto di cancro nel 2013. «Cercavamo sempre pensieri obliqui, di non essere ovvi. Quando abbiamo visto Sgt. Pepper’s abbiamo pensato: “Cavolo, dobbiamo riuscire a fare questa cosa in maniera diversa. Possiamo fare qualcosa di unico”. Quando abbiamo fatto Dark Side of the Moon, Houses of the Holy e Band on the Run, nel 1973, abbiamo scoperto il nostro stile e abbiamo avuto il privilegio di poterlo esplorare grazie alla fiducia che queste band ci hanno concesso. Era incredibile».

Ecco la storia di Hipgnosis, raccontata da Aubrey Powell attraverso le sue cover più iconiche.

1. “Atom Heart Mother”, Pink Floyd (1970)

Questa è una delle mie cover preferite in assoluto. La band andava forte all’epoca, quindi ci siamo permessi di fare una copertina senza lettering: niente titolo, niente nome del gruppo. I Floyd, inoltre, non ci hanno dato nessun tipo di indicazione, non avevamo ascoltato la musica né letto i testi. Roger Waters disse: «Fate quello che vi piace, tirate fuori un’idea».

Ai tempi eravamo in contatto con John Blake, un artista surrealista: parlavamo di cosa sarebbe stato assolutamente fuori contesto nel rock & roll, almeno dal punto di vista di un’etichetta. A quel punto è venuta fuori la mucca. Io e Storm siamo andati in campagna e abbiamo fatto le foto: dicono sempre di non lavorare con bambini e animali perché sono difficili da fotografare. Quella mucca, invece, non faceva altro che fissarci.

Ci sono dei momenti, in questo mestiere, in cui scatti e pensi: “Ecco la foto. Ci siamo”. Abbiamo proposto l’immagine alla band. Tutti hanno detto la stessa cosa.

L’etichetta fece molta pressione per inserire il lettering, ma la band ha resistito. Questa copertina è l’esempio perfetto di cosa può fare pensare diversamente dalla massa. Tutti volevano sapere cosa ci fosse nel disco con la mucca. Atom Heart Mother è stato il primo grande successo dei Pink Floyd in America.

2. “The Dark Side of the Moon”, Pink Floyd (1973)

Abbiamo incontrato la band negli studi di Abbey Road, dove stavano registrando il loro nuovo disco. Avevano già il titolo e Richard Wright mi ha detto: «Non dirmi che useremo di nuovo uno dei vostri diavolo di progetti surreali. Non possiamo fare qualcosa di più stiloso? Magari una singola immagine, una scatola di cioccolatini?». Il resto della band era d’accordo con lui.

Io e Storm siamo usciti da Abbey Road piuttosto giù di morale. Abbiamo passato i giorni successivi a pensare a quella copertina: ad un certo punto mi sono ritrovato di fronte a un vecchio libro di fisica, c’era questa foto con un prisma arcobaleno. Storm mi ha guardato e ha detto: «Ce l’ho: un prisma. Tutto deve girare intorno ai Pink Floyd e al loro light show».

Nei primi anni della carriera i Floyd erano famosi soprattutto per le luci dei loro concerti. A malapena si vedevano sul palco, nessuno sapeva che faccia avessero. Quel prisma, quell’arcobaleno, in qualche modo rappresentavano perfettamente la loro immagine.

Abbiamo portato le nostre proposte ad Abbey Road e le abbiamo poggiate per terra. Tutto il gruppo ha detto «Ecco la copertina. È lei, bellissima. Questo è esattamente quello che avevamo in mente, questi sono i Pink Floyd»

Storm, poi, ha deciso di basare tutto l’artwork sui triangoli. Siamo andati in Egitto e abbiamo fotografato le piramidi. Abbiamo fatto anche degli adesivi, tutto a base di piramidi. Se ci pensi è sia banale che interessante, ed è diventata la copertina più iconica della mia generazione.

Da quel momento in poi Hipgnosis è diventato una cosa grossa. Due mesi dopo abbiamo fatto Houses of the Holy con i Led Zeppelin e da lì i guadagni sono diventati importanti.

3. “Houses of the Holy”, Led Zeppelin (1973)

Suona il telefono: è Jimmy Page. «Ho visto la copertina di questo disco dei Wishbone Ash. Vi andrebbe di fare qualcosa per i Led Zeppelin?», mi ha chiesto. «Certo! Qual è il titolo?», «Non lo sappiamo ancora», mi ha detto. «Come sono i brani?», immaginavo già la risposta. «Non te lo posso dire, e non posso neanche mandarti i testi». Tutto molto misterioso, esoterico e strano. Alla fine Jimmy mi ha detto: «Incontriamoci tra tre settimane, portami delle idee. Lo sai che tipo di band sono i Led Zeppelin».

In quel periodo tutti i nostri sketch erano fatti a mano, su normalissimi fogli di carta. Una delle nostre ispirazioni era l’autore di fantascienza Arthur C. Clarke, soprattutto il suo romanzo Childhood’s End. Alla fine del libro c’era questa immagine: alcuni bambini che gattonavano verso lo spazio aperto. Io e Storm eravamo molto interessati a quel tipo di immaginario, eravamo innamorati di William Blake, Luis Buñuel e Salvador Dalì – ci piacevano le immagini surreali e la scrittura esoterica.

Robert Plant era stato sull’isola di Staffa, dove ci sono moltissime pietre ottagonali. Ha detto: «Si, sarà proprio così. Questi ragazzini che corrono sulle rocce. Riesco a vederlo». Jimmy era d’accordo: «Anche io, un’idea magica». Il loro manager, il grandissimo Peter Grant, ci ha detto: «Stiamo andando in tour in Giappone, ci vediamo tra sei settimane. Cazzo, vedete di aver finito tutto per quella data. E non preoccupatevi dei soldi, chiedete all’amministrazione. Fate come vi pare», roba da non credere.

All’inizio nelle foto doveva esserci una famiglia, ma non siamo riusciti a scattare a causa della pioggia. Quindi ho deciso di fare un fotomontaggio in bianco e nero, esattamente come nell’immagine di Arthur C. Clarke, per poi dipingere tutto a mano. Il lavoro mi ha richiesto più due mesi e Peter Grant non era contento: «Ci vediamo alla stazione. Vieni in macchina e porta le copertine definitive. Non abbiamo più intenzione di aspettare». Ci siamo incontrati a Victoria Station, ho aperto il bagagliaio e gli ho mostrato il lavoro finito. «Questa roba è incredibile. Ma l’interno dovrebbe diventare l’esterno e viceversa», ha detto.

È arrivato anche Jimmy: fumava lentamente ed era ancora vestito con gli abiti di scena. Dopo un po’ intorno al mio bagagliaio si sono radunate più di 200 persone. È partito una specie di applauso, tutti guardavano il mio lavoro. È stato surreale, estremo e bizzarro.

4. “Wish You Were Here”, Pink Floyd (1975)

L’idea della copertina è venuta dalla band: parlavamo della falsità dell’industria discografica. Tutto è partito dal testo di Have a Cigar. “By the way, which one is Pink?” è una frase che si sono sentiti dire davvero, proprio da un uomo di una casa discografica. Tutto il disco parla di falsità, di assenza – soprattutto quella di Syd Barrett – e di come l’industria sia una bestia che fa molte vittime.

All’epoca usavamo quest’espressione: “Oh, mi hanno bruciato”. La usavamo quando venivamo fregati. Storm mi ha detto: «Perchè non diamo fuoco a qualcosa? Magari due uomini d’affari che si stringono la mano e uno dei due prende fuoco», era una delle sue idee folli.

Sono andato a Los Angeles e ho incontrato Ronnie Rondell, uno stuntman disposto a prendere fuoco non una, ma più volte. Come facilmente immaginabile, non è proprio piacevole prendere fuoco, e farlo senza potersi muovere è anche pericoloso: per fortuna quel pomeriggio non c’era vento. Ho ripetuto lo scatto 14 volte, alla 15esima lo stuntman ha detto: «Ok, abbiamo finito. Non farò mai più una cosa del genere». Per fortuna ero sicuro di avere la foto giusta.

Tra tutte quelle fatte per Wish You Were Here, la mia fotografia preferita è quella del nuotatore. Per farla abbiamo fatto costruire una sedia speciale: anche in questo caso c’è stato bisogno di ingaggiare uno stuntman, questa volta qualcuno capace di trattenere il respiro a lungo. Adoro quello scatto: dà una sensazione di sospensione incredibile. Nessuna increspatura dell’acqua, assenza assoluta. Come se non ci avesse mai nuotato nessuno.

5. “Technical Ecstasy”, Black Sabbath (1976)

Questa volta sapevamo da tempo il titolo del disco. Mi ricordo un pomeriggio passato a parlarne con Storm e George Hardie. Technical Ecstasy, cos’è tecnico? All’epoca c’erano giusto i robot, e cosa c’è di meglio di due robot che si innamorano? Così abbiamo pensato all’immagine della scala mobile e ai robot innamorati. La copertina finale è in parte una fotografia e in parte un’illustrazione di George Hardie.

Non dimenticherò mai l’incontro con i Black Sabbath, un’esperienza interessante. La band ha adorato subito l’idea, era differente da quello che avevano fatto fino a quel momento: niente chitarre, niente oscurità, niente diavolo, sangue o coltelli. Era l’immagine di una storia d’amore. Ero molto contento. Poi è arrivato Ozzy.

Eravamo riuniti a casa di Tony Iommi, e lui è arrivato in ritardo: occhiali scuri, vestito scuro, cappello scuro. Era ubriaco marcio. Si è avvicinato e ha detto: «E qui cosa sta succedendo?». La tensione nell’aria era palpabile: «Stiamo scegliendo la copertina del disco, Ozzy», ha detto qualcuno. Lui ha indicato l’immagine e ha detto: «Quella, è quella giusta».

«Si, Ozzy, è quella che abbiamo già scelto tutti insieme», ha risposto Tony Iommi con il suo perfetto accento di Birmingham. Hanno iniziato a litigare furiosamente. Ero vicino al manager, che mi ha detto: «Beh, devo dire che l’incontro è andato bene, non credi?».

6. “Dirty Deeds Done DIrt Cheap”, AC/DC (1976)

Mi ricordo quando due australiani magrolini sono entrati negli studi di Hipgnosis. Erano due tipi divertenti e volevano una copertina. Io sarei andato a Los Angeles il giorno successivo e ho pensato di fare qualche scatto lì. Ho parlato con Storm che mi ha detto: «Ho un’idea. Hai presente quei magazine come il National Enquirer? Ti ricordi che coprivano gli occhi delle persone per non farti capire chi fossero, ma tu lo capivi lo stesso?».

Ero in una zona di motel, quindi ho pensato di fotografare lo sfondo per montarci su diversi personaggi una volta tornato in Inghilterra. Abbiamo assunto alcuni modelli e li abbiamo vestiti, fare il collage non è stato molto difficile. Quella cover è un ottimo esempio dello stile Hipgnosis: noi scattavamo le nostre idee, non quello che vedevano i nostri occhi. Per questo sono tutti perfettamente a fuoco, per questo tutto ha quest’aria surreale, come se fosse un quadro.

E si, non penso che quei due ragazzini australiani, Angus e Malcolm, avessero davvero capito il senso del nostro lavoro. Più avanti, infatti, hanno cambiato la cover con qualcosa di più volgare, di più ovvio. Per noi fu comunque un successo, negli Stati Uniti il disco ha venduto sei milioni di copie.

7. “Peter Gabriel”, Peter Gabriel (1978)

Eravamo innamorati di Peter Gabriel, lavorare con lui era davvero fantastico. Il problema è che non riesce a decidersi su niente: se potesse sarebbe capace di soffermarsi sullo stesso argomento per anni e anni. Lavorare con lui era interessante, si saltava da un’idea all’altra per settimane, poi arrivava la data di consegna ed eravamo costretti a decidere.

Litigava spesso con Storm: erano due intellettuali e non erano d’accordo su niente. Devo dire, però, che i loro compromessi generavano sempre idee eccezionali. Peter voleva assolutamente un ritratto in copertina: noi eravamo contrari, ma abbiamo accettato a patto di fare qualcosa di unico. A Storm è venuta l’idea dei graffi, come se Peter stesse graffiando la foto da dentro lo scatto.

Peter Gabriel è sempre stato molto auto-ironico, non gli interessava fare la pop star. Era abbastanza pazzo da permetterti di fare cose interessanti proprio con la sua faccia, non voleva sembrare attraente. Voleva solo che il suo disco generasse idee interessanti: i graffi lo erano e così abbiamo fatto.

Copertine così non si fanno più. L’epoca d’oro delle copertine dei dischi è finita. Noi ci siamo goduti i 15 anni più belli di tutti. C’era anche da guadagnarci, siamo stati davvero dei privilegiati.