La classifica dei 100 chitarristi migliori di sempre (59-40) | Rolling Stone Italia
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La classifica dei 100 chitarristi migliori di sempre (59-40) | (79-60)

Continua il nostro viaggio settimanale fra le cento chitarre che hanno segnato per sempre la storia del rock. Questo sabato, ecco la terza puntata, con posizioni dalla 59 alla 40

La classifica dei 100 chitarristi migliori di sempre (59-40)

John Lennon, a nostro insindacabile giudizio, è in 55esima posizione

Abbiamo messo insieme i migliori chitarristi ed esperti del settore per stilare la classifica delle glorie delle sei corde, e per spiegarci cosa separa le leggende da tutti gli altri. Commenti di: Keith Richards su Chuck Berry, Carlos Santana su Jerry Garcia, Tom Petty su George Harrison e molti altri.

59. Robbie Robertson
Quando Bob Dylan ha descritto il “selvaggio suono metallico” della Band, stava in realtà parlando della chitarra di Robbie Robertson, come evidente dal suo torrido, starnazzante solo in Just Like Tom Thumb’s Blues, nel tour del 1996. Ma nel momento in cui la Band cominciò a produrre dischi, Robertson aveva limitato il suo approccio, evolvendosi in un perfetto musicista completo. «Volevo andare nella direzione opposta, per fare cose che fossero raffinate e discrete, come Curtis Mayfield e Steve Cropper…dove tutto riguardava la canzone», ha detto Robertson.

58. Peter Green
Alla fine del 1966, Peter Green ebbe l’incarico di rimpiazzare Eric Clapton nei John Mayall & The Bluesbreakers. Mayall disse al suo produttore «Potrebbe non essere migliore (di Clapton) ora. Ma aspetta ancora un po’… diventerà il migliore». Presto, con la formazione originale dei Fleetwood Mac, divenne il chitarrista blues britannico più progressivo, con un’ostilità tipica di Chicago, amplificata dalle melodie avventurose in album come Then Play On del 1969. Green entrò presto in una fase buia caratterizzata da disturbi mentali e problemi salute, ritornando negli anni ‘90 con doti più tenui ma certamente riconoscibili.

57. Rory Gallagher
«Mi sembra uno spreco lavorare per anni e alla fine diventare semplicemente una specie di celebrità», ha detto Rory Gallagher a Rolling Stone nel 1972. Invece, il chitarrista irlandese, ai tempi 23enne, è diventato leggendario per la sua etica no-stop in tour e per le sue abilità impetuose. Suonando una malandata Strat, indossando spesso camicie di flanella, Gallagher entusiasmò gli stili di Chicago e del Delta, con slide bollenti e un modo duro di scrivere canzoni. Tra i suoi fans ci sono The Edge e Bob Dylan, che nel 1978 ad un concerto fu cacciato via dal backstage perché Gallagher non lo riconobbe.

56. Albert Collins
Nel 1968, Jimi Hendrix parlò del suo amore per un luminare del Blues di Houston, sconosciuto fuori al di fuori della sua zona: «C’è solamente una persona che sto ancora cercando di far arrivare alla gente. È molto bravo, uno dei migliori chitarristi al mondo». Albert Collins, che morì di cancro ai polmoni nel 1993, suonava con il pollice e l’indice invece che col plettro, per dare uno scatto muscolare ai suoi assoli penetranti e acuti. Il suo modo fluido e creativo di suonare ha influenzato Hendrix, a volte apertamente: a Jimi piaceva il prolungamento di Collins nella canzone Collins Shuffle talmente tanto che lo usò in Voodoo Child.

55. John Lennon
Quando il fondatore di Rolling Stone Jann S. Wenner ha chiesto a John Lennon come si valutasse in quanto chitarrista, Lennon ha risposto: «Tecnicamente non sono bravo, ma posso farla fottutamente gridare e muovere. Ero un chitarrista ritmico. È un lavoro importante. Posso far andare una band». Così è e così ha fatto: Lennon è stato la candela d’accensione dei Beatles , spesso aggiungendo freschezza a canzoni puramente pop. Ascoltate lo strimpellio aereo che infuoca Help!, il riff circolare di Day Tripper o l’apparentemente superficiale The Ballad of John and Yoko – dove, con George Harrison durante una vacanza, Lennon trasformò un giro ritmico rudimentale in magia tagliente. Lennon è stato anche in grado di creare toni feroci: nel video live promozionale di Revolution, Lennon fa gridare la sua Epiphone Casino dal corpo incavato come un tagliaerba arrabbiato. Ma Lennon comunque non ha avuto ciò che gli meritava come chitarrista negli anni d’oro dei Beatles. «Chiamano George il cantante invisibile, Io sono il chitarrista invisibile» ha detto Lennon.

54. Joe Walsh
Nei James Gang, power-trio di Cleveland, Joe Walsh ha combinato la furia dei Who e i fuochi d’artificio di pura tecnica degli Yardbirds con lo scricchiolio tipico dell’R&B, ad esempio in Funk#49 del 1970. L’Umorismo nelle abilità blues di Walsh è venuto fuori tramite l’uso del talk-box nella sua hit Rocky Mountain Way del 1973, ma si è fissato in tutte le classifiche rock delle radio soltanto nel 1975, quando si è unito agli Eagles. Walsh ha portato una punta di rock nei pezzi pop degli Eagles, creando una serie di riff indistruttibili per esecuzione: ad esempio il giro ringhiante staccato in Life in the Fast Lane e l’elegante aggressività nella parte a due chitarre di Hotel California. Walsh ha influenzato il classico Who’s Next degli Who del 1971, anche se non ne ha suonato una nota; il chitarrista ha infatti regalato a Pete Townshend una Gretsch Chet Atkins del 1959 che Townshend ha suonato in tutto l’album. Il chitarrista degli Who lo ha poi ripagato del favore in un’intervista del 1975 a Rolling Stone, affermando: «Joe Walsh è un musicista fluido e intelligente, non ce ne sono molti così in giro».

53. Otis Rush
Nel 1968, Mike Bloomfield ha dichiarato a Rolling Stone che «le regole per le band blues di giovani bianchi sono state create a Chicago negli anni ’60. In pratica dovevi essere forte come Otis Rush». E non era facile. Nato nel Mississippi, e poi trasferitosi nella Città Ventosa nei tardi anni ’40, Rush è stato un chitarrista elettrico formidabile, dai toni grintosamente acuti e dagli attacchi laceranti; essenzialmente un incrocio esplosivo fra Muddy Waters e B.B. King, oltre che un cantautore pazzesco. Insieme a chitarristi come Magic Sam e Buddy Guy, Rush ha contribuito a creare un approccio al Chicago blues più moderno e dalle influenze R&B, poi conosciuto come West Side Sound. L’impatto di Rush sulle generazioni successive è stato enorme: i suoi successi tra fine anni ’50 e inizio anni ’60 sono stati coverizzati dai Led Zeppelin (I Can’t Quit You Baby), John Mayall (All Your Love [I Miss Loving]) e J. Geils Band (Homework), mentre Stevie Ray Vaughan ha chiamato la sua band Double Trouble, come il pezzo letale del ’58 di Rush.

52. Clarence White
Clarence White ha contribuito alla formazione di due generi; il suo uso del plettro in acustico, già testato in adolescenza quando insieme a suo fratello fondò la band Kentucky Colonels, è stato un elemento chiave nel rendere la chitarra uno strumento portante nel bluegrass. Più tardi, il musicista ha posto le basi del country rock e ha trasportato la precisione dinamica e la simmetria melodica nella chitarra elettrica. Chitarrista di altissimo livello negli anni ’60, White ha suonato in Sweetheart of the Rodeo, album colossale dei Byrds del 1968. Dopo essersi unito alla band nello stesso anno, White ha introdotto un solido entusiasmo rock nel suo stile Nashville. Il leader dei Byrd, Roger McGuinn ha dichiarato: «White non ha mai suonato qualcosa che potesse vagamente sembrare debole; era sempre alla guida… verso la musica».
White era tornato al bluegrass con l’acclamato Muleskinner quando è stato ucciso da un guidatore ubriaco nel 1973. Aveva 29 anni. Dan Auerbach dei Black Keys ha dichiarato: «Clarence era immerso nell’hard-country e nel bluegrass. Ha incorporato questi elementi nel rock & roll e ha conquistato tutti».

51. Johnny Marr
Il chitarrista degli Smiths è stato un genio dell’epoca post-punk: di certo non un esibizionista, piuttosto un tecnico che riusciva ad avere il suono di un’intera band. Da piccolo, Marr studiava i dischi della Motown e cercava di copiarne non solo i riff di chitarra, ma anche gli accordi di piano e le melodie di violino, tutto con la sua mano destra. I suoi arpeggi corposi –spesso suonati con una Rickenbacker squillante, tecnicamente incredibili e dettagliati– sono stati la parte essenziale del suono degli Smiths, al pari della voce baritona di Morrissey. Marr è stato un esploratore instancabile: per This Charming Man, del 1983, ha lanciato dei coltelli su una Telecaster del ’54, incidente rivelatorio a cui i Radiohead probabilmente hanno alluso nel brano Knives Out, ispirato agli Smiths. Ed O’Brien dei Radiohead ha dichiarato: «Marr è stato un chitarrista ritmico brillante. Faceva pochissimi assoli e aveva dei suoni incredibili». Noel Gallagher degli Oasis ha affermato: «Sono stato in studio con lui e non c’è nulla che non sappia fare con la chitarra. Quell’uomo è un fottuto mago».

50. Ritchie Blackmore
Conosciuto da tutti per il riff gigantesco di Smoke on the Water dei Deep Purple, Ritchie Blackmore ha aiutato a definire la chitarra heavy-metal combinando la composizione intricata della musica classica con l’aggressività del blues rock. «Ho sempre considerato il blues troppo limitante, e la musica classica troppo disciplinata. Musicalmente ero sempre in una terra di nessuno», ha dichiarato il chitarrista. Blackmore ha alzato la polvere nell’album Machine Head del 1972; i suoi assoli in Higway Star e Lazy rimarranno modelli di prodigi metal. Blackmore ha esaminato la musica Europea antica con i Rainbow, la sua band successiva –ha anche imparato a suonare il violoncello, usandolo poi per comporre la sincopata Stargazer– e ora esplora lo stile pizzicato rinascimentale con i Blackmore’s Night. Ma comunque sono i suoi album con i Deep Purple che hanno influenzato generazioni di metallari. Lars Ulrich dei Metallica ha dichiarato: «Blackmore ha incarnato quella fascinazione che ho sempre avuto verso l’essenza del rock & roll, quell’elemento di pericolo. I Deep Purple, ne loro momenti migliori, erano più imprevedibili dei Led Zeppelin e dei Black Sabbath».

49. Muddy Waters
Muddy Waters c’era dall’inizio, nel Delta del Mississippi, seduto ai piedi di Charley Patton e Son House. Era un ragazzino quando questi due erano nel fiore della carriera. Waters suonava la chitarra in modo fisico, con un suono percussivo come una batteria. Nei suoi slide non c’erano solo gli acuti, ma anche le corde basse, gutturali, e suonavano come se stesse per stapparle tutte via. Ero già un fan di Muddy –il Muddy di Chess Records– quando ho sentito le sue registrazioni alla Libary of Congress filmate da Alan Lomax nel 1941 e 1942. Mostravano Muddy così giovane, quando era un completo sconosciuto, timido e spaventato, che ascoltava la sua voce registrata per la prima volta. C’era vulnerabilità, ma anche qualcosa di strutturato. Per i chitarristi del Delta, lo slide era un botta e risposta tra sé e sé, come la voce femminile in un coro, e Muddy lo ha portato fino a Chicago. Ci sono dei riff alla Muddy, giri che sono unicamente suoi. Si sentono in Hendrix ad esempio. In là con gli anni, Muddy suonava sempre meno, ma quando entrava sapevi che era lui. Aveva Buddy Guy e Jimmy Rogers nelle sue band. Ma quando suonavi con Muddy, non suonavi quello che suonava lui, perché lui copriva tutte le tue cazzate».

48. Jonny Greenwood
I Radiohead sono la perfetta rock band del 21esimo secolo, e Jonny Greenwood è uno dei chitarristi decisivi del 21esimo secolo: un mago degli effetti il cui stile continuamente cangiante ha dato al gruppo la forza di rinnovarsi instancabilmente –dallo sfarzo interstellare di The Tourist al luccichio sfocato di The Reckoner. Come The Edge, soltanto più lontano nella stratosphera art-rock, Greenwood non ha nessuna connessione con il blues, ed è poco interessato agli assoli. È famoso per attaccare le corde della chitarra con un archetto da violino, e suona così violentemente che ha anche dovuto indossare un tutore per il braccio.
Gli scoppi di rumore digrignanti di Greenwood hanno distinto i Radiohead da una qualsiasi band un po’ depressa, ad esempio in Creep del 1992 –primo indicatore del ruolo cruciale del chitarrista nel portare avanti la band. Alex Lifeson dei Rush ha detto: «Lo ammiro da molto tempo. Il modo in cui intreccia le sue parti nella melodia di una canzone è eccezinale, davvero meraviglioso».

47. Stephen Stills
«È un genio musicale», ha dichiarato Neil Young a proposito del suo compagno nei Buffalo Springfield e nei Crosby, Stills, Nash and Young. Stills è uno dei chitarristi più sottovalutati del rock, probabilmente per la sua affermata reputazione di cantautore. Dentro e fuori la scena per più di quattro decadi, il chitarrista ha sfidato e accompagnato i giri feroci di Young con uno stile latin-country, e i suoi assoli in crescendo nella recente reunion dei Buffalo Springfield hanno dimostrato che Stills non ha mai perso la passione per le sue schitarrate intrepide. È stato un musicista molto rispettato, tanto da riuscire a far apparire Eric Clapton e Jimi Hendrix (caro amico di Stills) nel suo album di debutto solista del 1970 –l’unico disco della storia del rock in cui compaiono le due leggende della chitarra insieme. «Mi piace ogni aspetto dell’esibizione dal vivo», ha dichiarato Stills, «Ma mi piace da pazzi starmene qui a fare a pezzi la mia chitarra».

46. Jerry Garcia
La maggior parte delle persone che suona blues è molto conservatrice. Rimangono in un certo modo. Jerry Garcia era fuori dal coro. Suonava blues mescolato a bluegrass e a suoni alla Ravi Shankar. Nell sua musica c’era il country e c’era la Spagna. C’era anche parecchio Chet Atkins in lui –il suo andare su e giù sulle corde. Ma si poteva sempre sentire un filo conduttore nelle sue canzoni. È come mettere delle biglie su una corda, invece di lanciarle in una stanza. Jerry aveva un’incredibile determinazione. Quando fai un assolo, decidi cosa suonare, arrivi e lasci il palco al prossimo. Questa era la filosofia di Jerry nei Grateful Dead. Jerry era il sole dei Greatful Dead –la loro musica ruotava attorno a lui. Non era affatto un tipo superficiale. Era davvero divertente suonare con lui, perchè era molto alla mano. Se lui andava su e giù io andavo a destra e sinistra. E posso dirvi che gli piaceva, perchè i Dead continuavano ad invitarmi. Di Carlos Santana

45. Link wray
Quando Link Wray ha pubblicato l’emozionate e infausto Rumble nel 1958, il brano è diventato uno dei pochi pezzi strumentali ad essere bandito dalle radio –per paura che potesse istigare violenza tra le gang. Pugnalando la cassa dell’amplificatore con una matita, Wray ha creato il suono overdrive distorto che riecheggia nel metal, punk e grunge. Wray, che ha fieramente rivendicato le sue origini indiane Shawnee e perso un polmone a cause della tubercolosi, era il classico tipo vestito in pelle, e già i titoli delle sue canzoni –Slinky, The Back Widow –trasmettono la forza e il rischio della sua musica. «Era completamente pazzo. Ascoltavo Some Kinda Nut in continuazione. Sembrava come se stesse strangolando la chitarra –come se stesse gridando aiuto», ha dichiarato Dan Auerbach dei Black Keys.

Quando Wray morì nel 2005, Bon Dylan e Bruce Springsteen suonarono Rumble sul palco come tributo. «Se non fosse stato per Link Wray e Rumble», ha detto Pete Townshend, «non avrei mai preso in mano una chitarra».

44. Mark Knopfler
Il primo momento da eroe della chitarra di Mark Knopfler – l’assolo rapido e gloriosamente melodico nella hit del 1978 Sultans of Swing, dei Dire Straits– è arrivato in un periodo in cui il punk stava rendendo obsoleta l’idea del guitar-hero. Ma Knopfler si è costruito una reputazione da maestro creativo (senza menzionare la sua scrittura geniale), dimostrando una padronanza magistrale di un’ampia scala di toni e trame: dalla distorsione grinzosa di Money for Nothing, alla precisione pungente di Tunnel of Love.

Uno delle caratteristiche chiave dello stile di Knopfler è stata l’assenza del plettro. Il chitarrista ha infatti dichiarato: «Suonare con le dita ti da immediatezza e anima». La versatilità di Knopfler lo ha fatto collaborare con artisti come Tina Turner, Eric Clapton e Bob Dylan, che si sono rivolti a lui per l’album del 1979 Slow Train Coming. La leggenda del country Chet Atkins, collaboratore di Knopfler, ha dichiarato: «È un genio, anche se non lo crede».

43. Hubert Sumlin
«Amo Hubert Shumlin» ha dichiarato Jimmy Page, «suonava sempre la cosa giusta al momento giusto». Per più di due decenni ha suonato al fianco di Howlin’ Wolf, e sembrava avere come una connessione telepatica con il leggendario cantante blues, estendendo i pianti feroci di Wolf con battute di chitarra spigolose e taglienti, e con perfetti riff su canzoni immortali come Wang Dang Doodle, Back Door Man e Killing Floor.

Sumlin ha avuto un tale impatto che il più grande rivale di Wolf, Muddy Waters, gliel’ha portato via per un po’ nel 1956. Sumlin, morto nel 2011 ad 80 anni, ha suonato fino alla fine, a volte presentandosi sul palco di fedeli alleati come i Rolling Stones, Elvis Costello, Eric Clapton e gli Allman Brothers. Riguardo al suo stile chitarristico di grande influenza Sumlin ha dichiarato: «Cerco di raccontare una storia, di raccontarla bene, di viverla. Può essere un po’ più veloce o un po’ più classico, ma alla fine si tratta di fare blues.”

42. Mike Bloomfield
Riferendosi alla morte di Bloomfield, avvenuta nel 1981 per overdose all’età di 37 anni, e ricordando gli album cruciali della sua carriera, Carlos Santana ha affermato: «Non ha avuto la possibilità di completare la sua missione, ma quei pochi album in cui ha suonato sono abbastanza». Bloomfield ha aiutato Bob Dylan con la chitarra elettrica, specialmente nell’album Highway 61 Revisited (ad esempio nei vorticosi giri di Like a Rolling Stone), e ha collaborato a due dischi con la Paul Butterfield Blues Band, incluso il capolavoro raga-blues del 1966, East West. (Ascoltate ad esempio l’assolo epico nella traccia omonima).

Nato a Chicago, Bloomfield ha studiato le leggende del blues elettrico locale Muddy Waters e Howlin’ Wolf sin da ragazzino, e ha incanalato le sue ricerche in uno stile dai suoni alti e chiari, fatto di assoli che riprendevano la vivacità fluida ed estatica del jazz modale. Santana ha dichiarato: «Sembrava sempre che il suono di Michael fosse come un salmone che risaliva la corrente. Veniva dalla musica di B.B. King ma è andato da un’altra parte».

41. Mick Ronson
É stata una collaborazione esilarante: il fraseggio conciso e affilato di Mick Ronson con il confuso confronto sessuale di David Bowie, durante l’ultimo ruolo da re del glam come Ziggy Stardust nei primi anni ‘70.

Bowie ha dichiarato: «Mick era il complemento perfetto per il personaggio di Ziggy. Eravamo bravi come Mick e Keith o Axl e Slash… la personificazione del dualismo rock & roll». La collaborazione storica ha in realtà preceduto Ziggy Stardust, raggiungendo il suo culmine nel lungo e metallico furore della traccia del 1970 The Width of a Circle. Lo stile blues con un tocco di raffinatezza di Ronson è stata anche una componente vitale in collaborazioni con Lou Reed, John Mellencamp e Morrissey, e durante la sua seconda collaborazione di successo alla fine degli anni ‘70 e inizio ‘80 , con Ian Hunter, ex cantante dei Mott the Hoople. Ronson, morto nel 1993, ha dichiarato:«Voglio che le persone dicano “wow, tutto questo non è magnifico e semplice? Se diventi difficile ed eccentrico, la gente non ti capisce più».

40. Tom Morello
Tom Morello ha reinventato la chitarra rock nel mondo post hip-hop degli anni ‘90 con i Rage Against the Machine. Facendo affidamento sugli effetti a pedale, ha creato un nuovo vocabolario del suono – ad esempio, lo scratch su vinile in Bulls on Parade, il bizzarro scoppio a laser in Killing in the Name e l’attacco a bomba in Fistful of Steel. Il miscuglio di congegni di Morello, fatto di assoli pirotecnici e accordi fragorosi, deriva dagli Stooges e dai Public Enemy». Riferendosi alla crew di produttori hip-hop, Morello ha dichiarato: «I Bomb Squad sono stati estremamente importanti per me come chitarrista. In sostanza ero il Dj nei Rage». Dopo aver abbandonato la chitarra negli ultimi cinque anni con il suo alter ego folk, The Nighwatchman, Morello ha alzato ancora di più la posta in gioco con il suo nuovo album , World Wide Rebel Songs. «Ho capito che posso suonare la chitarra in quel modo, quindi perché non farlo?» ha detto il musicista a Rolling Stone all’inizio dell’anno.

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