I 50 migliori album pop-punk (10-1) | Rolling Stone Italia
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I 50 migliori album pop-punk (10-1)

Dai Blink-182 ai Buzzcocks, l'ultima puntata con il meglio dal filone più adorabile e disperato del punk, con Rancid, Bad Religion, NOFX e The Offsprings

I 50 migliori album pop-punk (10-1)

Green Day, Foto IPA

Continua dalle posizioni 30-10

In un tweet del 2016, Billie Joe Armstrong dei Green Day ha dichiarato guerra al pop-punk. “Ho sempre odiato quest’espressione”, ha spiegato dopo su Kerrang! “Penso sia una contraddizione in termini. O sei punk, o non lo sei”.

Ma in un modo o nell’altro, quella contraddizione – l’idea di una forma d’arte così devotamente underground con un importante appeal mainstream – è sempre esistita. Dai grandi sfasciati degli anni Settanta (Buzzcocks, Undertones) agli eroi hardcore anni Ottanta (Misfits, Descendents), agli hitmaker degli anni Novanta (Green Day, Blink-182) e oltre, le band punk hanno sempre messo in mostra una grande capacità di scrittura accanto alla loro posizione anti-autoritaria. E il focus del punk per la velocità, la concisione e la semplicità dei tre accordi si sposa naturalmente con i valori fondamentali del pop.

Durante gli anni, quello che ora conosciamo come pop-punk si è trasformato rapidamente, evolvendosi con i tempi e le mode. Come la New Wave e il college rock, estetiche ska, rap, emo e persino da boy-band sono entrate nel mix, ma una caratteristica è rimasta costante: il pop-punk è per i ragazzi, o quantomeno per chi si sente ancora adolescente. È di per sé impertinente, pieno di angoscia, autocritico e divisivo sul piano generazionale. È anche tenero e romantico, abbonda di nostalgiche e svenevoli scene da primi amori, baci che cambiano la vita e tragiche rotture sentimentali. È in OC e One Tree Hill, la soap opera adolescenziale del rock contemporaneo. I primi brani di gruppi straordinari come Blink-182, Simple Plan, Sum-41 e, sì, anche dei Green Day, parlavano sempre di uno sviluppo bloccato, un testardo desiderio di non crescere mai. E i fan che tornano a questi dischi classici dopo dieci, quindici o vent’anni possono sentire di non averlo fatto mai, presi da uno stato di beatitudine targata What’s My Age Again?.

“L’intero spettro dell’esperienza umana, tutto quel desiderio e quell’insicurezza, sono perfettamente riassunti in quegli anni formativi”, ha scritto nel 2016 Amanda Petrusich del New Yorker a proposito del potere dell’emozione adolescente, riflettendo sul ritorno dei Blink-182. “È lì che vive il pop-punk. La sua crudezza non sta tanto nella musica ma nella novità inebriante di quei sentimenti”.

Per celebrare questo movimento duraturo e molto amato, contiamo alla rovescia i cinquanta migliori album pop-punk nella storia. Dai Buzzcocks ai 5 Seconds of Summer, ecco il nuovo canone del punk.

10. “Walk Among Us” Misfits (1982)

Per alcuni, l’hardcore era tutto commentario sociale o catarsi emotiva, ma il frontman dei Misfits Glenn Danzig stava solo cercando di spassarsela. “La band piace a più persone ora, ma siamo ancora incompresi, specialmente dai punk politicizzati”, ha dichiarato il cantante nativo del New Jersey alla fanzine Flesh and Blood nel 1983. “Alcuni si rivolgono alla musica come per dire ‘cosa può fare il punk rock per rafforzare le mie idee politiche?’ e noi invece siamo più tipo ‘okay, divertiamoci’”. Se quello era l’obiettivo della band, Danzig e soci non lo raggiunsero pienamente in Walk Among Us, un album che mischiava insieme aggressivi riff a tre accordi, hook di bubblegum-pop (con tanto di cori “whoa-oh”) e testi zeppi di immaginario da horror B-movie e violenza voltastomaco. I ritmi convulsi e i rozzi controcanti delle canzoni non potevano oscurare la voce di Danzig, straordinariamente agile e debitrice di Elvis, che conferiva persino ai momenti più antisociali di Walk Among Us – “Skulls” (“Taglia le teste delle ragazzine/E attaccale sulla mia parete”), “Astro Zombies” (“E la tua faccia cade in un cumulo di carne/E poi il tuo cuore, cuore pulsa/Finché pulsa morte”), “Hatebreeders” (“Uccidi un innato in ogni tua cellula/È nel tuo sangue e non puoi evitarlo”) – un appeal adolescenziale senza tempo. Mancavano almeno dieci anni al picco del pop-punk quando i Misfits si sciolsero nell’’83, ma l’influenza della band incombe eccome: nessuna band di rispetto nell’ambito del genere non ha una o tre cover di Walk Among Us nel proprio repertorio. “Possiamo suonare quasi qualsiasi pezzo dei Misfits”, ha detto Matt Skiba degli Alkaline Trio al Dallas Observer. “Amo i Misfits, ma non è fisica quantistica”. H.S.

9. “Riot!” Paramore (2007)

Anche se la maggior parte dei fan del pop-punk è composta da donne (il 51 percento degli spettatori al Warped Tour è fatto da ragazze), il genere è sempre stato una dimensione elettiva per ragazzi lamentosi, spesso intenti a colpevolizzare una cotta che non ricambia il sentimento. Ma l’emersione dei Paramore ha aiutato a far pendere l’ago della bilancia da un’altra parte: il soprano della frontwoman Hayley Williams ha allargato i confini su come potesse si potesse svolgere una performance pop-punk. Analogamente, il primo singolo “Misery Business”, un inno da arena sul furto di fidanzati, ha ribaltato il copione in quanto al gender. Riot! resta una pietra miliare del suo tempo, non solo perché ha portato una nuova energia femminile nel pop-punk (cosa peraltro grandemente necessaria), ma perché le sue canzoni erano semplicemente migliori della maggior parte di ciò che i contemporanei dei Paramore stavano producendo in serie, e altrettanto amare. “C’era un entusiasmo intorno che sapevamo essere diverso da tutto ciò che avevamo provato fino ad allora”, ha detto Williams di Riot! a Track 7, “È stato come un lampo di genio”. M.S.

8. “Dude Ranch” Blink-182 (1997)

Nel 1997, i fan del pop-punk erano ampiamente allergici all’idea dei contratti con le major, ma i Blink-182 hanno creduto nel loro potenziale di massa prima che lo facesse il resto del mondo. Hanno firmato con la MCA e si sono messi a lavorare sul loro secondo LP, Dude Ranch, onorando ancora lo stesso spirito fai-da-te che contraddistingue i loro primi lavori. Il bassista Mark Hoppus ha scritto “Dammit”, l’inno da perdenti che ha lanciato il disco, dopo aver giocherellato con una chitarra acustica a cui mancavano due corde. Tuttavia, le allusioni giovanili del disco spesso nascondevano vero pathos: “Dick Lips” è un’ode empatica a un cazzone adolescente (“Ricorda che sono un ragazzino/Non so quello che ho fatto”), mente “Josie” è una canzone dolce su una ragazza premurosa che ritrova un burrito. La disarmante combinazione di humor e cruda sagacia pop ha aiutato Dude Ranch a ottenere il disco di platino, spianando la strada alla futura mega notorietà dei Blink. Ma la band non ha mai perso l’attitudine sveglia mostrata qui. “Il complimento più grande di tutti è quando un ragazzino dice che gli abbiamo aperto gli occhi su un nuovo stile di musica”, ha detto una volta Hoppus a Rolling Stone. “Siamo un po’ tipo ilFisher-Price: la mia prima Punk Band”. M.S.

7. “Generation X” Generation X (1978)

Anche se ha lasciato la sua più grande impronta commerciale negli anni Ottanta, parte del miglior lavoro di Billy Idol può essere ritrovato nell’omonimo debutto del 1978 della punk band londinese Generation X. Pieno di rapide progressioni di accordi, ritornelli istantaneamente orecchiabili e un sacco di attitudine di strada – il tipico sogghigno di Idol era già in pieno effetto – pezzi come “Ready Steady Go”, “Youth Youth Youth”, “One Hundred Punks” e la drammatica “Kiss Me Deadly” erano generalmente considerate troppo poppeggianti e superficiali per essere prese sul serio al tempo, ma sono invecchiate incredibilmente bene. “Stavamo cercando di comunicare le nostre esperienze in un modo romantico ma realistico, invece che lamentandoci a gran voce, come era in voga in quegli anni”, ha scritto Idol nella sua autobiografia nel 2015, Dancing With Myself. “Questa nuova direzione ci tirò fuori dal vecchio punk, consentendoci di mantenere la sua aggressività e attitudine mentre progredivamo musicalmente esplorando emozioni e sentimenti più complessi”. L’approccio ha lasciato il segno su numerosi pop-punker che sarebbero arrivati dopo. Come ha spiegato Billie Joe Armstrong nel 1994, quando Rolling Stone lo ha intervistato sul fatto di essere un’icona per i ventenni, “L’unica cosa che so di Generation X è che il loro primo disco mi piaceva davvero tanto”. D.E.

6. “Singles Going Steady” Buzzcocks (1979)

I Buzzcocks si formarono lo stesso anno in cui Paul McCartney cantava “Silly Love Songs” e si sciolsero due anni prima che Johnny Rotten dichiarasse “L’amore è due minuti e 52 secondi di ciaf ciaf”. In quel periodo di tempo, esplorarono il terreno a metà tra storie d’amore poppeggianti e aggressività punk con una serie di piccoli, libidinosi lampi di tensione melodica (e, tra l’altro, una delle loro migliori canzoni di sempre, “What Do I Get?” dura due minuti e 52 secondi, per il massimo ciaf ciaf). Anche se la banda mancuniana che si formò dopo aver visto i Sex Pistols in concerto ha pubblicato una serie di dischi brillanti, nessuno di questi ha superato la compilation Singles Going Steady, che fa ripercorre le origini del pop-punk un 45 giri alla volta e ha influenzato artisti diversi tra loro, dagli Offspring ai Fine Young Cannibals. Iniziando con la confessionale ed esilarante “Orgasm Addict” del 1977 (“Assistenti e fattorini dei macellai/Li avete avuti tutti qua e là”), avevano perfezionato la realizzazione di motivetti bizzarri abbinati a un suono elettrizzante di chitarria. Dopo che il frontman originale Howard DeVoto lasciò il gruppo per formare i Magazine, il chitarrista Pete Shelley lo sostituì e scrisse un pezzo d’amore confuso, orecchiabile, devastante e sessualmente ambiguo dopo l’altro: “Ever Fallen in Love … (With Someone You Shouldn’t’ve”), “What Do I Get?”, “Promises”. Liricamente, le canzoni lamentavano come la felicità fosse sempre fuori portata (letteralmente, nel caso della completamente funky “Why Can’t I Touch It?”). Musicalmente, erano una combinazione tra la melodiosità dei Kinks e di David Bowie e il picchiare forte dei Ramones. “Per me era esattamente come la roba con cui ero cresciuto negli anni Sessanta, come With the Beatles”, ha detto nel 2015 Shelley a proposito delle sue prime canzoni. “Volevamo essere intelligenti ma non intellettuali. Volevamo divertire ma non essere intrattenitori”. K.G.

5. “Take This to Your Grave” Fall Out Boy (2003)

I Duemila videro i Green Day e i Blink-182 crescere e il pop-punk diventare onnipresente, facendo da colonna sonora a film adolescenziali e riempiendo arene. Il debutto dei Fall Out Boy inaugurò una scena completamente nuova e caratterizzata dal mischia-generi, in cui riff pesanti e un’estetica screamo andava a braccetto con le care vecchie pene d’amore adolescenziali. L’album è pieno di desiderio, con Patrick Stum che indaga su dove sia il ragazzo di una ragazza stanotte, sperando che sia un gentiluomo (“Grand Theft Autumn/Where Is Your Boy”) e guarda al futuro mentre celebra l’amicizia e la libertà del weekend (“Saturday”). Il disco, partito come un demo, aiutò a cementare il futuro dei Fall Out Boy prima ancora che il loro secondo LP li portasse ad inimmaginabili vette di successo rock. “Fino a quel punto nella storia della band, eravamo soltanto un passatempo prima di ad arrenderci alla pressione della vita vera”, ha scritto il cantante Patrick Stump in un post che celebrava il decimo anniversario dell’album. “Pensavamo di essere una scusa piuttosto figa per assentarci dal college per un semestre”. B.S.

4. “Milo Goes to College” Descendents (1982)

Pensate a Milo Goes to College come a un big bang stile La rivincita dei nerd del pop-punk. La formazione classica dei Descendents si delineò nei tardi anni Settanta, quando il chitarrista Frank Navetta e il batterista Bill Stevenson, compagni di pesca a Hermosa Beach da ragazzini, incontrarono il trenta-e-qualcosa-enne mago del basso della zona, Tony Lombardo. L’occhialuto fan-diventato-frontman Milo Aukerman conferì alla band non solo la sua caratteristica brillantezza melodica ma anche la sua adorabile immagine stramba. “Ho trascorso miei primi anni alle superiori cercando di non essere diverso e di non essere picchiato, e poi a un certo punto è scattato un interruttore e mi sono detto, ‘Vaffanculo, non mi interessa. Sarò il tipo più nerd e geek possibile”, ha ricordato Aukerman nel 2016. Quella mentalità trovò presto spazio nei primi pezzi forti dei Descendents come l’inno disperato “Hope”, l’entusiasmante grido da pesca-come-via-di-fuga “Catalina” e la risposta “I’m Not a Loser”, con Lombardo che contribuisce al capolavoro ironico “Suburban Home”, e il suo refrain “Voglio essere stereotipato/Voglio essere classificato”. Anche se la band sfoggiò buonissime abilità hardcore e suonò insieme ai Black Flag, fesserie senza vergogna come “Weinerschnitzel” (un frenetico ordine da fast-food messo in musica) e “I Like Food” misero in chiaro che non aveva pazienza per l’angoscia punk studiata a tavolino. Fedele al titolo del loro disco, Aukerman mise da parte la band per proseguire i suoi studi – prima di ritornare a metà degli anni Novanta per lo stellare Everything Sucks, e rimanere in giro a fasi alterne da allora – ma il caratteristico miscuglio sciocco e sdolcinato di Milo Goes to College sarebbe diventato il calco per il pop-punk per come lo conosciamo. “Erano come dei Beach Boys punk rock”, ha detto a SiriusXM Mark Hoppus. “Tutto il punk rock che avevo ascoltato prima era davvero arrabbiato e politico e urlato e non era proprio per me … Mi piaceva davvero la melodia e l’armonia dei Descendents; potevi cantarci appresso. Era roba che mi interessava, come il cibo e gli amici e l’andare in giro e le ragazze e l’essere incazzato con i propri genitori”. H.S.

3. “Rocket to Russia” The Ramones (1977)

“La band voleva davvero una hit. Tutti i Ramones volevano tanto una hit”, ha detto a Music Radar il il sound engineer Ed Stasium. “Perciò nel terzo album, Rocket to Russia, iniziammo a usare più overdub, quasi per ammorbidire un pochino il suono. Ricordo che furono fatti riferimenti a Steve Miller quando realizzammo alcune di quelle canzoni”. Dietro le chitarre a sega elettrica, i blue jeans strappati, i ritmi scavezzacollo e i “non voglio” frustrati, i Ramones sono sempre stati una band pop nel profondo, fan di gruppi vocali come le Shangri-Las, le Ronettes e le Crystals. E Rocket to Russia è stato forse il loro momento più pop. Certamente lo è stato dal punto di vista più quantificabile, visto che contiene le uniche tre loro canzoni entrate nella Billboard Hot 100: “Sheena Is a Punk Rocker”, “Rockaway Beach” e la loro cover di “Do You Wanna Dance?” di Bobby Freeman. “Trovammo davvero la nostra strada con quel disco. Avevamo un budget un po’ più alto, usavamo studi di registrazione veramente buoni”, ha detto Tommy Ramone all’Huffington Post nel 2012. “A quel tempo suonavamo ormai molto bene. Pensavamo di essere a un passo dal successo, sai, quindi avevamo un sacco di entusiasmo”. C.R.W.

2. “Enema of the State” Blink-182 (1999)

I Blink-182 hanno offerto ad una nuova generazione tutti gli hook del pop adolescenziale senza la sua sdolcinatezza, e persino uniformi bianco brillante alla Backstreet Boys nel video dell’eccezionale singolo di Enema of the State “All the Small Things”. Enema è stato l’album che ha definito la formula vincente dei Blink-182: canto nasale, ritornelli tormentone, il drumming ferreo dell’allora nuova recluta Travis Barker e un sacco di lirismo adolescenziale unito allo scetticismo adulto. I messaggi volutamente contrastanti dell’album – da brani censurabili come “Dysentery Gary” e “What’s My Age Again?”, un ode all’immaturità, alla cupa “Adam’s Song” sul suicidio – risuonavano chiaramente, con il disco che è arrivato a vendere più di quattro milioni di copie soltanto degli Stati Uniti. “Chiunque metta su una band sogna di avere successo”, ha detto Tom DeLonge a Rolling Stone nella cover story sui Blink nel 2000, “Ma non arrivi mai a sognare tutto questo”. M.S.

1. “Dookie” Green Day (1994)

In maniera piuttosto naturale, una band il cui nome simboleggia un giorno passato a fumare canne, non può non perfezionare la disillusione giovanile, sfornando mega-hit sulla masturbazione (“Longview”), l’ansia (“Basket Case”) e l’abbandono della suburbia (“Welcome to Paradise”) nel proprio debutto su major. Il terzo disco dei Green Day è un pugno pop-punk allo stomaco, che sposa perfettamente melodie a prova di bomba e una mentalità vendicativa e feroce. Dopo i primi anni Novanta interamente dominati dal grunge, quell’irriverenza è stata una boccata d’aria fresca. “C’erano un sacco di lamenti nel rock di quel periodo”, ha detto Billie Joe Armstrong a Rolling Stone vent’anni dopo la pubblicazione dell’album. “Siamo estroversi per natura. Quindi ecco cosa è venuto fuori dalle nostre canzoni. Sapevamo che stavamo per entrare in un’arena piena di band che non ci piacevano”. Nonostante il suo spirito da eterno perdente, Dookie è stato un enorme successo. Il primo album pop-punk a dimostrare che la parte “pop” del sottogenere era completamente possibile, in parte perché Dookie era un album che parlava direttamente agli adolescenti: sia a quelli veri e propri sia a gente che non era mai uscita da quel periodo della propria vita. Il disco ha portato alla luce una nuova generazione di punk, facendo apparire il genere nella sua forma più giovane e più accessibile, come mai fino ad allora. “Non me ne frega niente se la gente pensa che sono insignificante perché ho ventidue anni”, disse Armstrong a Rolling Stone in un’intervista del 1995. “È grandioso. Abbiamo causato un gap generazionale”. B.S.