I 50 migliori album del 2017 per Rolling Stone USA | Rolling Stone Italia
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I 50 migliori album del 2017 per Rolling Stone USA

Taylor Swift che risponde a tono, Kendrick Lamar che la mette sul personale, Lorde che dà una festa strepitosa e molto altro ancora

I 50 migliori album del 2017 per Rolling Stone USA

Nel nostro primo anno post-elettorale la musica è stata ricca di furia, confusione e resistenza. Sono usciti album con titoli come American Dream (Lcd Soundsystem), American Teen (Khalid) e All American Made (Margo Price). E in effetti, gli artisti sono diventati esplicitamente politici, da Randy Newman a Jay-Z passando per Jason Isbell. Ma la musica del 2017 è stata caratterizzata anche dalla sua fluidità, con confini sempre più labili e musicisti che in questi strani tempi hanno cercato un’identità e uno scopo. Artisti pop come Kesha e Harry Styles hanno prodotto parte del miglior rock classico; alcuni dei momenti pop più acclamati sono arrivati con i suoni più patinati di icone del rock alternativo come Queens of the Stone Edge, Foo Fighters, St. Vincent e Grizzly Bear. Sza ha mischiato l’autovalutazione emo con un moderno R’n’B, Chris Stapleton ha messo assieme il soul classico e la musica country contemporanea, Jlin ha aggiunto innovative sonorità sperimentali alla dance music di Chicago, Valeri June ha esplorato decenni di musica americana e Drake ha attinto suoni e collaboratori da tutto il mondo. Et voilà il meglio di un anno tumultuoso.

50. “Forever” di Code Orange

Con il suo terzo LP, il primo con la storica etichetta metal Roadrunner, l’infernale gruppo hardcore di Pittsburgh sforna una durezza all’avanguardia. Rispecchiando il ben noto amore del batterista e cantante Jami Morgan per i Nine Inch Nails, Forever riesce sia a livello di atmosfere che di aggressività. L’implacabile precisione del martellamento rimane sempre al centro – non per niente, in un recente evento della WWE la musica della band accompagnava l’ingresso sul ring del minaccioso lottatore Aleister Black – ma i torvi passaggi ambient in brani come The Mud non fanno altro che aumentare l’aura di profondo terrore che pervade l’intero album. I momenti più coinvolgenti si devono alla chitarrista Reba Meyers, e ai suoi vocalizzi angosciosi in Bleeding the Blur e Dream2.

49. “Concrete and Gold” Foo Fighters

“Non voglio essere un re/voglio solo cantare una canzone d’amore”, afferma Dave Grohl: una vera e propria dichiarazione d’intenti da parte dell’eterno sideman trasformatosi in frontman. È così che si apre quella che potrebbe essere la più raffinata raccolta dei Foo Fighters, prodotta dal guru del pop Greg Kurstin, in cui la loro matrice hard rock viene sì addolcita, ma non indebolita. La paradigmatica The Sky is a Neighborhood è Beatles dei giorni d’oggi con un tocco di Queens of the Stone Age; in Sunday Rain c’è addirittura Paul McCartney alla batteria. Da canzoni capaci di incendiare stadi come Run e La Dee Da fino al soul acustico che apre T-Shirt, «è rock classico fatto da un punk che non ha mai smesso di crederci».

48. “Chronology” Chronixx

Con questo possente album di debutto legato alle radici, il venticinquenne di Spanish Town, Giamaica, guida un revival reggae che è non solo retrò. Cresciuto nell’epoca d’oro post Bob Marley – pensate a Barrington Levy, Aswad, Gregory Isaacs e Yellowman, che Chronixx ringrazia in Likes – porta la saggezza e le vibrazioni di consapevolezza rasta in un nuovo secolo, con ritmi dub vintage (Big Bad Sound) e moderni suoni pop-R’n’B capaci di far tremare i club. Chronixx, il più promettente ambasciatore della musica reggae da una generazione a questa parte, è arrivato proprio nel momento in cui il bisogno di musica curativa è più forte che mai.

47. “Dirty Pictures (Part One)” Low Cut Connie

Giunti al quarto album, questi revivalisti rock and roll di Philadelphia non hanno perso nulla della loro grinta e verve, con il vigoroso piano di Adam Weiner che interpreta la notevole cover di Controversy di Prince, e invitando a scatenarsi sulle note di Death and Destruction il cantante afferma di vedere ovunque. Adornano i loro tratti ridotti all’osso in stile band da bar con riff fighetti e imprevedibili virate testuali, inclusa una specie di canzone di protesta intitolata What Size Shoe (“E questi sarebbero gli Stati Uniti? Ho qualcosa da dire al riguardo”). I racconti di Weiner su una vita passata in bar di second’ordine risulta così realistica che potrebbe anche essere sincero quando canta “Tutti i miei amici si sono beccati l’herpes a Montreal/tutti i miei amici non riescono più ad aprire la bocca”. Ok, magari non proprio tutti i suoi amici

46. “Soul of a Woman” Sharon Jones & the Dap-Kings

Si tratta dell’ultimo album di Sharon Jones prima della sua morte nell’autunno del 2016, registrato con la band che l’ha a lungo accompagnata, i Dap-Kings, durante i momenti rubati alla chemioterapia. Era un talento unico, e la sua perdita non può non cambiare il modo in cui si ascolta l’incredibile Call on God, le sessioni di ottoni di Sail On e il tenero commiato di Pass me By. Nella sua essenza, però, Soul of a Woman è un album gioioso, e ti fa sentire felice di aver condiviso un pianeta con la sua voce finché è stato possibile.

45. “Modern Burdens” Tracy Bonham

Questa reincisione da ventunesimo secolo del peperino debutto di Tracy Bonham del 1996 The Burdens of Being Upright, conferisce la giusta prospettiva ai suoi inni un tempo pervasi dallo spirito della alt-era, come la meditabonda One Hit Wonder e la inqueta Navy Bean. La Bonham – cantante, compositrice e violinista – sceglie un approccio amorevole per aggiornare le già intelligenti canzoni di quando era più giovane, permeando per esempio la hit Mother Mother con il malessere dell’era Trup, o trasformando The Real in luminoso fuzz-pop. I camei di colleghe come Tanya Donnelly dei Throwing Muses e Kay Hanley dei Letters to Cleo corroborano l’atmosfera festosa anche quando il materiale d’origine è invece carico d’angoscia.

44. “Whiteout Conditions” The New Pornographers

La migliore power pop band degli ultimi vent’anni si è sempre distinta per la capacità di abbinare idee complesse e forti astrazioni a suoni orecchiabili. Il loro ultimo album è impregnato di ipnotiche e stordenti repliche dei Feelies e del krautrock anni ’70, batterie incalzanti, svolazzi al sintetizzatore da dolby surround e microscopica, luminosamente frattalica, armoniosa euforia – come Steve Reich che coproduce un disco degli ELO nel 1979, o una visione da New Wave della prima ora se MTV fosse stata trasmessa da una cooperativa di arte collettivista delle regioni selvagge canadesi. Sarebbe tutto solo una gran zuppa al neon senza le bellissime canzoni, che rimuginano su stati depressivi e ansiosi, post Trump ma anche no, per venir fuori con una musica che affronta le inquietudini della vita reale e ti trasporta al di sopra di tutto questo decadente teatrino.

43. “Celebrate Ornette” Ornette Coleman

Questo cofanetto multimediale contiene le ultime note suonate in pubblico dal rivoluzionario sassofonista Ornette Coleman, durante un evento tributo del 2014 a Prospect Park, Brooklyn. E siamo di fronte a note magnifiche, versi fragili che grondano del caratteristico senso di gioia e di desiderio di Coleman. Ma le oltre tre ore del cofanetto fungono anche da albero genealogico musicale, tracciando il ruolo recitato dalla sua filosofia musicale di liberazione nel corso delle generazioni. Sentiamo Flea funkeggiare insieme al figlio del batterista di Coleman, Denardo; Thurston Moore dei Sonic Youth e Nels Cline duettare su un’inquietante versione piena di feedback del brano del 1962 Sadness; e i geni del sax Branford Marsalis, David Murray Joey Lovano e Ravi Coltrane volteggiare sulla languida Lonely Woman. Il fatto che tutto il cofanetto, inclusi il concerto di Brooklyn nella sua interezza e le scene della veglia funebre di Coleman, assomigli alla festa avanguardista del secolo è una testimonianza del suo genio.

42. “Colors” Beck

Dopo quelli caldi e perfetti di Morning Phase che hanno conquistato i Grammy, gli ultimi suoni di Beck ruotano intorno alla musica pop da cassetta del momento. Non si tratta di una parodia, sebbene il soffocato flow old school nell’allucinato pezzo trap Wow sia davvero divertente. Invece, fa qualcosa di ancora più difficile, regalando un che di sublime alla musica che la maggior parte della gente ama odiare, collegando le sue verità a una più ampia storia del pop. Dear Life ammicca sia ai Beatles che al defunto Elliott Smith, e la canzone che dà il titolo all’album ruba apparentemente il proprio flow a White Lines di Melle Mel. Dreams, poi, brilla come le sculture di macchine accartocciate di John Chamberlain: funk cromato con contorte parti cantate, variazioni vocali e fiorettature da rock da stadio anni ’70. Il risultato è che fa sembrare la scienza pop di massa positivamente artigianale.

41. “Southern Blood” Gregg Allman

L’ultimo album di Gregg Allman, morto a maggio, è una toccante dichiarazione d’addio sulla falsariga dei capolavori crepuscolari di Leonard Cohen e David Bowie. Eppure, nonostante Southern Blood accenni più volte alla mortalità, riesce a risultare anche scanzonato, con una spensierata generosità che ricorda i lavori più delicati degli anni ’70 di Allman – si pensi alla sua appassionata registrazione dell’inno del southern rock di Lowell George Willin’ o alle versioni di garbato folk dei suoi amici Tim Buckley e Jackson Browne. Il momento più emozionante è quello dell’indagatore blues My Only True Friend, cantato come se fosse una conversazione con il fratello Duane. “È come se casa fosse appena dietro l’angolo”, canta. È il suono elegiaco di qualcuno che esce di scena con grazia.

40. “Painted Ruins” Grizzly Bear

All’incirca una decina di anni fa, con Yellow House del 2006 e Veckatimest del 2009, i Grizzly Bear avevano contribuito a definire la nuova ondata del folk rock psichedelico. È passato così tanto tempo che quel suono è ritornato in auge – il che rende ancor più notevole il fatto che loro abbiano preso una direzione diametralmente opposta nel loro primo album in studio dal 2012. Painted Ruins vira verso il synth pop, con gli hook più diretti che la band abbia mai usato (Mourning Sound, Losing All Sense) per affrontare rotture o la fine del mondo. Compaiono anche parecchi bizzarri suoni jazz, specie in quel walzer deliziosamente cupo che è Glass Fillside. Pieno di tensione e aperto a battere nuove strade, è il genere di ritorno dopo una pausa di riflessione agognato dalla maggior parte dei fan di una band.

39. “Soft Sounds from Another Planet” Japanese Breakfast

Michelle Zauner dei Japanese Breakfast è sempre stata il genere di songwriter che affronta le grandi sfide. Per il suo album precedente, aveva scritto una raccolta di cupe e struggenti confessioni intitolandola argutamente Psychopomp. Ma la musica di Soft Sounds possiede una grandeur degna dei testi e delle questioni affrontate: un album incredibilmente allucinato, impregnato di fantascienza e di suoni shoegaze. Diving Woman ne è l’emblema, un volo di sei minuti di drone music che accompagna una sua riflessione sulla sensazione di isolamento che si prova sott’acqua. E in Boyish, usa parole forti nei confronti di una relazione inutile, facendosene beffe: “Non riesco a scendere dalla tua testa/non riesco a uscire da te in generale”.

38. “Residente” Residente

Qualunque cosa si aspettassero i fan dei Calle 13 dal loro idolo Residente, non era probabilmente questo primo album che porta il suo nome. Residente è una dichiarazione di solidarietà globale, che vede come coprotagonisti un pazzesco assortimento di collaboratori da dieci diversi parti del mondo, tutte legate alle radici e al DNA dell’icona portoricana. Ogni canzone è unica nel suo genere, ed è costruita intorno a suoni di qualche regione: Somos Anormales, vincitrice dei Latin Grammy Awards attinge hip-hop della voce centroasiatica di Tuvan; Desencuentro, con la francese Soko, è una canzone capace di attraversare l’Atlantico. «Non volevo fare un album di world music, ma sapete come vanno queste cose», ha detto Residente a Rolling Stone. «Sono scioccato, in questo momento tutto ciò che passa in radio è uguale. È come il cibo spazzatura. Abbiamo bisogno di mangiare meglio, altrimenti patiremo una lenta morte culturale».

37. “As You Were – Who Built the Moon?” Liam & Noel Gallagher

I fratelli Gallagher hanno di fatto atteso lo stesso momento per produrre la loro musica migliore da anni, pubblicando due grandi album a poche settimane di distanza uno dall’altro. Quasi come se fossero imprigionati in una sorta di rivalità tra fratelli o qualcosa di simile. Nessuno dei due si è allontanato dal modello Oasis, mettendo insieme scariche Brit-Pop e raggianti melodie alla Beatles. Otto anni dopo l’incasinata separazione degli Oasis, ci sono momenti di onestà da adulti: “A mia difesa/le mie intenzioni erano buone”, canta Liam in un pezzo di As you Were ironicamente intitolato For What it’s Worth. La versione di Noel è l’angosciante vecchio monito che riecheggia in Be Careful What You Wish For. Ma in questo caso la parte migliore viene durante spavaldi e dolci inni come Wall of Glass di Liam e Holy Mountain di Noel, che hanno uno stordente sapore da 1995.

36. “Lindsay Buckingham/Christine McVie” Lindsay Buckingham/Christine McVie

Con Mick Fleetwod e John McVie alla sezione ritmica, l’unica cosa che impedisce a questo disco di essere una reunion dei Fleetwood Mac è l’assenza di Stevie Nicks (che per un po’ si è gingillata con l’idea di parteciparvi prima di optare per un tour da solista). Buckingham e McVie costituiscono un’accoppiata rivelatrice: il loro suono non parte dallo stile della band pur accentuandone alcuni aspetti. Ascoltarlo è come osservare un paesaggio famigliare da una diversa angolazione, e la produzione di Mitchell Froom, che aggiunge inaspettati dettagli percussivi al mix, contribuisce a dare un tocco di novità. Virando sul funky in Too Far Gone o lasciandosi a momenti di estrema felicità come in Red Sun, il duo mostra la facilità dei veterani del pop rock nel fare ciò che viene loro meglio.

35. “Triplicate” Bob Dylan

Il songwriter più influente del rock non pubblica un album di inediti da cinque anni, concentrandosi invece sulle grandi canzoni della musica americana, in particolare quelle precedenti all’avvento del rock rese immortali da Frank Sinatra. Nel suo terzo album di questa serie, una tentacolare e al tempo stesso intima epopea di tre dischi, Dylan non teme il confronto con brani familiari come As Time Goes By o Stormy Weather – si direbbe anzi che si cimenti proprio con queste celeberrime canzoni per mostrarci il processo di dylanizzazione a cui le ha sottoposte. Accompagnato da una piccola band (e da un’occasionale sezione di fiati), canta con attenzione e sfumature, guardando indietro agli amori passati e alle perdite con un tono di pensieroso rimorso che alla fine scema in un’accettazione riluttante. Quando canticchia in maniera irregolare “Vedo che sto sorridendo dolcemente mentre mi avvicino/all’autunno dei miei anni”, beh, lo stesso premio Nobel non sarebbe stato capace di dirlo meglio.

34. “Brick Body Kids Still Daydream” Open Mike Eagle

In parte giornalista, in parte romanziere e in parte diarista, Open Mike Eagle partecipa a un campionato a parte con un flow facile e naturale. Brick Body Kids Still Daydream rende omaggio a un quartiere di case popolari, The Robert Taylor Homes, esistite a Chicago prima di essere demolite nel 2007. Se l’edificio in sé è una parte importante della storia, è il racconto di un ragazzo e della sua feroce immaginazione a trasformare quel mondo di cemento in qualcosa di surreale.

33. “Far From Over” Vijay Iyer Sextet

Il tastierista jazz Vijay Iyer sforna grandi dischi da più di quindici anni, ma Far From Over ha comunque il sapore di un punto d’arrivo. Qui, Iyer – membro dal 2013 del MacArthur Program e dal 2014 della facoltà di Harvard – mette insieme un dreamteam di innovativi improvvisatori e li lascia sbizzarrire su una raccolta di nuovi pezzi che abbinano intrichi da progressive rock, drammi eleganti e spinte ritmiche a rotta di collo. I sassofonisti Steve Lehamn e Mark Shim aggiungono il fuoco, mentre il corno e il flicorno soprano di Graham Haynes forniscono quel tocco di coolness soffusa e baciata dall’elettronica. Contemporaneamente, il virtuoso della batteria Tyshawn Sorey trasforma anche i momenti più cervellotici in furioso funk. La narrativa jazz negli ultimi anni è stata dominata da stili e suoni retrò; Far From Over ci indica il futuro.

32. “Carry Fire” Robert Plant

Con un titolo che evoca scoperte primitive ed eroici fardelli, Carry Fire di Robert Plant adegua il mitico ritmo dell’antichità a questi nostri tempi sempre più cupi. New World… è una canzone possente che parla di immigrazione in un’epoca caratterizzata da divieti di viaggio xenofobi; Bones of Saints esplode con la promessa di «andare in California», per poi diventare un inno contro le sparatorie di massa. In generale, la sensazione che si prova è al tempo stesso vecchia e nuova. Qui si intrecciano l’imponenza di Maypole dei Led Zeppelin, la meticolosa violenza della chitarra dei Velvet Underground (si pensi a All Tomorrow Parties, venata di Dance With You Tonight) e la tranquilla potenza della preziosa voce di Robert Plant, che riesce a essere stupefacente. Ancor più impressionante, è il fatto che a sessantanove anni sia ancora dedito al ringiovanimento del rock and roll. Un perfetto esempio in tal senso è il suo duetto con Chrissie Hynde in Bluebirds Over the Mountain, che trasforma una gemma degli anni ’50 registrata da Richie Valens, e in seguito dai Beach Boys, in un lento da baccanali, compreso di ululato capace di rompere gli argini. Il tutto a dimostrare che la sua forza atletica, così come il suo idealismo musicale, continua ad ardere inalterata.

31. “Résistance” Songhoy Blues

Alcuni dei brani più funky e di rock più duro dell’anno provengono da questo gruppo desert blues amante di Hendrix e dell’hip hop. Mentre il loro paese, il Mali, è dilaniato dalla violenza, i giovani e rabbiosi Songhoy Blues rispondono sia come band politica che come party-band, suonando intensi groove dance che condannano il razzismo (One Colour), contestando la violenza della polizia o celebrando la vita notturna della loro città (Bamako). Divertente il contributo di Iggy Pop, che in Sahara sembra David Byrne che recita per i Chili Peppers. “Non esistono condomini, non ci sono pizze/è una cultura genuina, niente Kentucky Fried Chicken”.

30. “From a Room: Volume 1” Chris Stapleton

Una raccolta di canzoni scritte dieci anni fa: ecco che l’attesissimo seguito di Traveller, del 2015, potrebbe essere percepito come una compilation qualsiasi con il meglio del talentuosissimo cantante barbuto. Ma Chris Stapleton non è un tipo che dorme sugli allori. Queste interpretazioni trasudano nuova energia, mentre Stapleton mette a frutto le componenti R’n’B, Southern rock e country proprie del suo pedigree. In Second One To Know, lascia scatenare la sua voce, su uno splendido assolo a una nota di chitarra, tornando poi ad abbassarla nella sommessa Either Way. Si tratta di quel genere di contrapposizione che rende Volume 1 (così come il recente Volume 2) una vera e propria istantanea.

29. “Everybody Works” Jay Som

Interamente scritto, registrato e prodotto nella sua camera insonorizzata fai da te, il secondo LP di Melina Duerte alza l’asticella del pop introverso. Ma pur essendo il prodotto di un genio ermetico, Everybody Works risplende di calore e benevolenza nei confronti degli esseri umani, soprattutto nell’estasiante piatto forte lo-fi The Bus Song, una melodiosa lettera d’amore dedicata a una sbandata (e al trasporto pubblico). Un sottofondo jazzato pervade tutti i pezzi, come per esempio in One More Time, Please, e Baybee, due lente jam session shoegaze, annidate tra Sade e Hope Sandoval.

28. “Big Fish Theory” Vince Staples

Se il titolo dell’album di Vince Staples fa pensare alla vita di isolamento e osservazione di un acquario, la sua musica delinea invece una strategia di fuga. Il rapper di Long Beach attinge da house, elettronica e garage britannica per una movimentata serie di bassi più adatta a un festival dance che a una playlist di rap caviar. Yeah Right è una critica dall’interno alle fissazioni materiali dell’hip hop, con una strofa di Kendrick Lamar sul crepuscolo dello zeitgest e una produzione degli sperimentalisti di elettronica Sophie e Flume. SAMO allude a Basquiat, mentre Staples evidenzia il suo sangue freddo, e Sophie dimostra quanto la trap possa essere un viaggio scheletrico ancor più spaventoso: Big Fish Theory rimanda ai tempi d’oro dell’hip hop, quando le uniche regole riguardavano la break. le regole erano fatte per essere infrante.

27. “More Life” Drake

In parte esperimento grime, e in parte ritrovo tropical house, Drake esplora una “playlist” con il suo ampio e gioiosamente voyeuristico More Life. Nel suo progetto contenente ventudue canzoni, si possono scorgere molte delle sue anime: il festaiolo di Passionfruit, il ragazzo affranto in Teenage Fever e lo spaccone del jet set immortalato da Gyaclhester. Una varietà di amici – vecchi e nuovi, locali e globali – brilla con intermezzi solisti o in qualità di ospiti, tra cui Giggs, Skepta, Young Thug, Partynextdoor, Sampha, Jorja Smith fino ad arrivare a Kanye West, che fa una delle sue rarissime apparizioni musicali nella dolce e semplicemente straordinaria Glow. Dopo gli sfarzi di Views dell’anno scorso e le hit If You’re Reading This It’s Too Late e What Time to Be Alive, sentire Drake che fa un passo indietro rende questo progetto un giro d’onore senza fronzoli.

26. “Lust for Life” Lana Del Rey

“Parte del passato/ma ora sei il futuro”, canta Lana Del Rey in Love, il brano che apre l’album, mentre il basso scava uno spazio cavernoso che collega Phil Spector alla trap music di Atlanta. Il quinto disco di Lana Del Rey volteggia su una nuvola crepuscolare così famigliare e rassicurante che poi è un attimo non rendersi conto di quanto sia mirata e sommessamente audace la sua musica. Mischia personaggi mitici come se stesse scorrendo i contatti del proprio telefono. Nei suoi testi riecheggiano Iggy Pop, Patsy Cline, Brian Wilson e i Led Zeppelin; tra gli ospiti, The Weeknd, Stevie Nicks, A$ap Rocky e Sean Ono Lennon. Di qualunque cosa abbia bisogno per evocare la pesantezza di questo nostro tempo tutt’altro che normale, lei se ne appropria. “È la fine di un’era? È la fine dell’America?”, intona in When the World Was at War We Kept Dancing. “No, è solo l’inizio”. Un pensiero così vero, e così spaventoso, da essere presente in ogni canzone del 2017.

25. “After Laughter” Paramore

La tensione tra gli intensissimi hook e i testi feroci esplode in colori fosforescenti in After Laughter, che mira agli ideali pop più frenetici descrivendo al contempo inevitabili derive di disperazione. L’ossessione figlia di quella rottura si manifesta in jam session cupe ma ballabili (Hard Times), immagini speculari synth pop di straziante saggezza (i tristi archi di 26), mentre la chitarra e le scintillanti contro-melodie contribuiscono all’atmosfera strattonata. Hayley Williams resta una presenza, un’interprete straordinaria capace di essere convincente sia quando canta in maniera sommessa che quando lascia andare la voce. La sua spavalderia vocale ti fa dimenticare che After Laughter è una cronaca ravvicinata del suo mal di vivere.

24. “The Order of Time” Valerie June

Valerie June ha perfezionato la sua versione graziosamente idiosincratica di musica americana in questo secondo Lp, immergendosi a fondo nel blues elettronico e nel folk di un tempo, e indorandoli di suoni country e intensi gospel. Astral Plane è un pezzo che vorresti riascoltare a loop, con il suo confuso riverbero e la sua tenerezza disarmante, il cantato che volteggia nell’etere. Shakedown è una jam session impressionista da pub. Ma i momenti più inebrianti sono in If And, dove attinge dagli stili Tuareg per mappare i suoni africani, partendo dal vecchio mondo per arrivare a quello nuovo – e ritorno, e Go Soul, di fatto un altro intreccio della storia della southern music con banjo, violino e ottoni. Chi l’avrebbe detto che la musicologia potesse essere così bella?

23. “Black Origami” Jlin

Il miglior album di elettronica dell’anno è uno stordente, disorientante e delirante sferragliare di suoni sintetici e iperreali. Da un punto di vista ritmico, Jlin, di base a Gary, Indiana, crea cicloni poliritmici simili all’intensa dance di Chicago nota come footwork, ma le sue sonorità sono pura avanguardia, ritoccata con ronzanti m’bira, voci tremolanti e realtà virtuali ad alta definizione che calzerebbero a pennello ad artisti sperimentali come Ryuichi Sakamoto, Oneothrix Point Never, Pc Music Crew o Holly Herndon.

22. “Need to Feel Your Love” Sheer Mag

Dopo aver padroneggiato la forma corta con tre ineccepibili EP in altrettanti anni, i combattivi punk di Philadelphia Sheer Mag sono finalmente riusciti a scalare la vetta di un album con Need to Feel Your Love. Fortunatamente, non hanno cambiato la ricetta. Il disco mette in mostra la consueta potenza, la stessa dose di garage metal e robusti ed energici hook (grazie alla poderosa voce della cantante Tina Halladay) che hanno reso così divertenti i loro primi dischi. Qui la differenza è che la band libera il suo lato spettacolare, con effetti sorprendenti, in pezzi come la sensuale Pure Desire e il nostalgico e malinconico viaggio nella power pop di Milk and Honey. A questo, si aggiunga la loro consueta capacità di scrivere alcune delle più cazzute canzoni d’amore (Just Can’t Get Enough) e alcuni dei più raffinati inni di protesta (Expect the Bayonet) del rock contemporaneo.

21. “The Nashville Sound” Jason Isbell and the 400 Unit

“Non mi batterò con te giù nel fosso/ ti aspetterò qui sulla strada”, canta Jason Isbell in Hope the High Road, la dichiarazione di salda perseveranza che fa da collante al suo sesto album registrato in studio, un gioiello di dieci canzoni di musica americana. In effetti, con The Nashville Sound Isbell eleva relazioni (If We Were Vampires), discussioni sui privilegi (White Man’s World) e la stessa arte di scrivere canzoni a un piano più alto. Ma il disco si dedica alle difficoltà degli operai di tutta la nazione, dalle trappole della dipendenza (Cumberland Gap) fino ai sogni infranti (Tupelo), dimostrando che la voce di Isbell è per tutti, e non solo per la gente del Sud.

20. “Ctrl” SZA

Dopo un trittico di promettenti Ep e una notevole partecipazione in Anti di Rihanna, la stella in erba dell’R’n’B dimostra di cosa sia capace in un vero e proprio LP. SZA si svela attraverso riflessioni in gran parte improvvisate sull’amore e il sesso, e le conseguenti promesse e rinunce. Da una canzone manifesto per le ragazzine (The Weekend) fino all’apprezzamento di un’icona delle commedie romantiche che rimugina sull’autostima della stessa cantante (Drew Barrymore), SZA sboccia nell’offuscata luce del suo riflettore.

19. “Pure Comedy” Father John Misty

Josh Tillman aggiorna la tradizione cantautoriale degli anni ’70 per la nostra epoca distopica e post-ironica, utilizzando le sue melodie e la “sincerità” sia come piatto semplice che come severo sfondo. “Implorando Taylor Swift/Tutte le sere all’Oculus Rift” è stata la coppia di versi più citata dalla cultura che si scaglia contro la voglia di spassarsela sempre e comunque, una parodia di una realtà virtuale e delle esche per il grande pubblico in stile Kanye West. Ma il testo più notevole è quello di Leaving L.A., un’epopea di tredici minuti alla Dylan in cui è lo stesso Tillman a finire nel proprio mirino. (“Ah grandioso, proprio ciò di cui noi tutti avevamo bisogno/Un altro bianco nel 2017/Che si prende dannatamente sul serio). Predire le critiche è stato solo un altro modo con cui voler essere quest’anno un passo avanti a tutti.

18. “Masseduction” St. Vincent

Con il suo quarto Lp, Anne Clark riesce in una doppia impresa, mostrando le sue scaltre sequenze pop ricche di hook e al tempo stesso ciò che c’è in lei di più personale. Ad assisterla nella produzione il campione del pop biografico Jack Antonoff, così come Lars Stalfors. Ma sono lo spirito di Clark e il suo nuovo calore come compositrice a rendere difficile scrollarsi di dosso l’album. Si pensi alla straziante Happy Birthday, Johnny, alla caustica New York o alla spassosa Pills – quest’ultima abbellita da un’esplosione di chitarra di Clark e dal sax di Kamasi Washington nel finale.

17. “Harry Styles” Harry Styles

Dopo il suo percorso stellare con gli One Direction, Harry Styles avrebbe potuto prendere qualunque direzione. Che cosa avrebbe azzardato per la sua grande mossa da solista? Appariscente pop da radio? Ospiti di fama? Il consueto menù di grandi nomi come produttori? Invece, Styles scommette sul suo voler essere una rock star, virando sul personale con un album sublime di chitarre e groove dal sapore anni ’70. Sweet Creature e Ever Since New York sono ballate intime, mentre Kiwi gli consente di sfoggiare al meglio la sua personalità Oasis. Two Ghosts è un’elegia che narra di una rottura degna della sua musa ispiratrice e mentore Stevie Nicks. A differenza della maggior parte dei tipi delle boy band che intraprendono la strada da solista, non dà mai l’impressione di dover faticare per poter essere preso sul serio – pur non perdendo quel tocco di esuberanza e spavalderia che ha regalato agli One Direction fin dall’inizio. Vedete quindi di abituarvi a lui, ne sentirete ancora parlare.

16. “All American Made” Margo Price

Il suo primo album del 2016, Midwest Farmer’s Daughter, l’ha imposta come una delle più acute songwriter di Nashville, ma il suo secondo LP alza di molto la posta in gioco. All American Made è una vibrante protesta sui diversi modi in cui così tanta gente è rimasta delusa dal sogno americano – si pensi alla ballata femminista Pay Gap, in cui incarna Loretta Lynn e Donna Summer per una schietta discussione sui doppi standard del capitalismo. Ma questo è anche un rispettoso tributo alla musica del passato, tra cui un dolce duetto con Willie Nelson e molte altre canzoni che rimandano al suo fulgore degli anni ’70. Nessuna legge dello stato, e in generale davvero pochi altri, quest’anno si è avvicinata alla profondità di Price.

15. “Lotta Sea Lice” Courtney Burnett e Kurt Vile

Un’accoppiata nel paradiso indie-rock. Vile è uno scaltro paroliere con un aspetto da fattone che ha sempre prodotto le sue dichiarazioni più eloquenti con la chitarra. Barnett è una scaltra compositrice, così brava a scrivere che qualunque frase buttata giù sul proprio diario potrebbe trasformarsi in una canzone coinvolgente. Insieme, partoriscono una collezione di brani sublimemente rilassante, che parli di ammorbidenti, delle loro routine quotidiane o – come nella strepitosa Continental Breakfast – della disconnessione nel tenere in piedi relazioni mentre si gira il mondo in tour. E nella frivola Blue Cheese, riesce a essere anche dolcemente romantico, quando il duo armonizza il verso “quindi baciami con la bocca, ragazza dei miei sogni!”.

14. “Out in the Storm” Waxahatchee

Nessun songwriter affronta le curve e le sterzate del romanticismo moderno come i Waxahatchee di Katie Crutchfield. Il quarto album della sua band, Out in the Storm, rappresenta quel tipo di traguardo che annuncia quando un artista di livello ha davvero trovato la propria voce, e Katie riporta alla luce quello che ha tutta l’aria di un arrugginito relitto emotivo. Sa tanto di risposta punk-rock al Tapestry di Carole King. 8 Ball e Silver abbondano di chitarre che sanno il fatto loro, mentre la cantante originaria dell’Alabama spala merda sui maschi ma perlopiù spiattella le sue brame d’amore. In Sparks Fly riceve un sostegno spirituale dalla sorella gemella Alison, uscita anche lei quest’anno con il suo eccellente Tourist in This Town. È il miglior album post-rottura, di quelli che si sparano a tutto volume dopo la fine di una relazione.

13. “Dark Matter” Randy Newman

Newman apre il suo primo album di inediti in otto anni con tre brani spassosi che affrontano la fine della civiltà occidentale, tra una versione dei fratelli Marx del Processo della Scimmia a Scopes e uno spettacolino su Vladimir Putin. E poi ne spara una, Lost Without You, sulla fine della vita, che fa proprio piangere, in cui un uomo nascosto nell’ombra sente la moglie morente far promettere ai loro figli di occuparsi di lui quando lei non ci sarà più. È una splendida miniatura, un crescendo di archi da prateria americana e corni che cedono il campo a Newman solo al piano a consegnare un messaggio semplice: in un modo o nell’altro, l’oscurità arriverà per ciascuno di noi.

12. “4:44” Jay-Z

Manco fosse un giovane artista introspettivo al pari di Lil Uzi Vert e XXXTentacion usciti alla ribalta dell’hip-hop emo, un tormentato quarantasettenne multimiliardario sforna il miglior album-confessione dell’anno. Usando la peculiare capacità del rap di esprimere profonde e intense verità, Jay affronta i propri fallimenti, autoflagellandosi per essere un marito infedele (4:44) e un personaggio pubblico egocentrico (Kill Jay Z). Con numerose campionature, tra cui la rivoluzionaria degli anni Sessanta Nina Simone, e qualche flip da Someday We’ll All Be Free di Donny Hathaway, Jay insieme al producer No I.D. si immerge in un approccio consapevole, per conferire alla propria ricchezza – e a ciò che sua figlia erediterà – una valenza politica.

11. “Sleep Well Beast” The National

La band originaria dell’Ohio e forgiata a Brooklyn tenta il balzo per passare dall’universo dei mirabili talenti dell’indie-rock ai contendenti del mainstreem, non assecondando il mercato, bensì alla vecchia maniera: migliorandosi, musicalmente e testualmente. La cupezza alla Joy Division che è il marchio di fabbrica della band viene inframezzata da sensualità e humor nero, complice la co-autrice Carin Besser (moglie del cantante Matt Berninger) e le voci di Lisa Hannigan e Justin “Bon Iver” Vernon. I paesaggi sonori, al tempo stesso, sono più impressionanti che mai, con una notevole componente elettronica, arrangiamenti taglienti e chitarre incisive (The System Only Dreams in Total Darkness). È rock che si ribella ai grotteschi tempi culturali che ci tocca vivere, non producendo slogan bensì volgendosi verso l’interno, serrando le fila, facendo scorta di bellezza e amore e raccogliendo le energie per i giorni a venire.

10. “The Thrill of It All” Sam Smith

Sam Smith è un fluido soul man, con uno stile che incarna Otis Redding, Aretha Franklin e Ray Charles insieme a icone moderne come Amy Winehouse e Adele. Il seguito del suo imponente In The Lonely Hour si apre con Quella Voce, e ciò che si perde in quei ritmi da club che erano la sua precedente cifra (vedasi la Latch con i Discolosure), si rimedia più che adeguatamente con taglienti falsetti e stupefacenti pirotecniche vocali. Il pezzo forte è Him, un edificante racconto strappalacrime di amore queer e intolleranza che, con la sua discretezza e la sua carica gospel, è un inno dei diritti civili della comunità LGBTQ. È la musica di un ragazzo gay intenzionato a raggiungere un pubblico universale alle proprie condizioni, e riuscendoci pienamente.

9. “Culture” Migos

Da quando la trap è diventata la lingua franca del pop, nessuno meglio dei Migos può celebrarne il trionfo. Il fumoso e lento rollio della loro musica connette il massimalismo dello studio con l’istantaneità fai-da-te dei filmmaker da iPhone e Youtube. Chiunque può farlo, ma nessuno lo fa come loro. Gli hook degli effetti sonori attivano dalle tastiere e dalle loro stesse bocche, ogni bwah, skrrrt, brrrup a testimoniare la loro abilità nel trasformare il niente in qualcosa, e via di nuovo, in un battito di ciglia. I loro flow cambiano marcia in ogni momento, regalando un’autorità allo stesso tempo casual e completa, e facendo funzionare il più grande trucchetto della musica pop: tramutare il transitorio in eterno.

8. “Villains” Queens of the Stone Age

Dopo quasi un ventennio, al frontman dei Queens of the Stone Age Josh Homme piace ancora portare una giacca di pelle nera che manco Dr Funkenstein in persona. Con un colpo di genio, per il settimo album dei rocker sudcaliforniani ha chiamato il guru della top 40 Mark Ronson, che mette in scena folli grooves stile Zeppelin come Feet Don’t Fail Me and Head Like a Haunted House, mettendo in luce lo swing nella loro struttura. In definitiva, tuttavia, Villains ha più a che fare con il raffinarsi che con il reinventarsi. È un disco bestiale, e il suo cuore caldo e rosso è puro Queens.

7. “Reputation” Taylor Swift

Il cattivo sangue arriva da dentro casa! Dopo essersene rimasta in disparte per mesi, Taylor ha fatto uno spettacolare audace ritorno con questo palazzo luccicante di sfarzosi rancori e cristallini ritmi trap. Il voltafaccia di Look What You Made Me Do entrerà nei libri di storia, e gli studiosi del pop discuteranno per generazioni se ritenerlo un geniale colpaccio da PR o un’epica cantonata. Fortunatamente i singoli non costituiscono l’intera storia di Reputation, la cui superficie ultrapatinata nasconde alcune delle canzoni più autentiche dell’intera carriera di Taylor. In Dress è su di giri per un nuovo amore romantico; in New Year’s Day si chiede, a festa finita, cosa le resti davvero. Ne deriva un monito tagliente: la Sua Maestà che è in lei può reclamare il suo posto ai vertici del pop a prescindere da quali possano essere i suoi sentimenti al riguardo.

6. “American Teen” Khalid

La nuova voce più peculiare dell’anno non è quella di una trap star, bensì di una teen star. Il suo modo di cantare colloquiale punta a un nuovo tipo di R’n’B: rilassato, ma colmo di un vulnerabile conflitto emotivo, per non parlare di quegli hook che ti si conficcano dentro. Parla di ragazzi senza soldi né macchine; che vivono ancora con i genitori (e sperano non si senta la puzza d’erba quando tornano a casa); così desiderosi di contatto umano da farsi andare bene l’amore a colpi di subtweet e messaggini. Hit come Location e Young, Dumb & Broke brulicano di rinnovate possibilità, inclusa quella di combattere stereotipi ormai superati. “Sono un afroamericano con una pettinatura afro, non proprio il vostro tipico atleta – non più mascolino degli altri ragazzi”, ha detto Khalid a Rolling Stone. “E adesso la gente mi guarda e con una faccia che dice ‘questo è IL teenager americano.'”

5. “American Dream” LCD Soundsystem

James Murphy riunisce la sua vecchia gang di virtuosi del punk-funk newyorkese per una paranoia davvero festosa: nel magistralmente incazzato American Dream non sa decidersi se fare un album festaiolo per la fine del mondo o un album apocalittico per la fine della festa . Gli LCD Soundsystem trattano il pubblico alla pari (“Voi avete perso il vostro internet/E noi abbiamo perso la nostra memoria”) mentre Murphy inveisce contro il sentirsi solo un altro spocchioso/compiaciuto fallito in una cultura al collasso. Come afferma in Emotional Haircut, Sul tuo telefono hai numeri di gente morta che non puoi cancellare. Eppure la musica diverte con la gioia della celebrazione comunitaria, dalla tagliente Detroit techno di How Do You Sleep? fino alla prorompente chitarra art-funk di Change Yr Mind. E in Black Screen omaggia David Bowie con il genere di austero commiato che lo stesso Ziggy Stardust non avrebbe disdegnato.

4. “Rainbow” Kesha

Dopo le vicissitudini giudiziarie, nessuna cosa pubblicata da Kesha avrebbe potuto avere una patina trionfale. Ma l’album che segna il suo ritorno, a sette anni dal suo debutto, è stato un grido di guerra artistico più potente di quanto ci si potesse aspettare. Comincia gradualmente con Bastards, un inno condotto dalla chitarra acustica diventato immediatamente un classico da accendino, per poi svoltare nel punk-pop (con gli Eagles of Death Metal) nella tostissima Let ‘Em Talk, in cui cela il verso “Ho deciso che tutti gli haters dovunque essi siano possono pure succhiarmi il cazzo” con un cheek-pop. Le gemme si susseguono, ma il meglio è la sua risata isterica nella Woman stile Dap-Kings: il suono di una che è sopravvissuta alla discesa agli inferi e sa di esserne uscita fortificata.

3. “Songs of Experience” U2

Love Is All We Have Left , dove Bono salta dentro a una tana di coniglio di elaborazione popvocale per consegnare una delle sue canzoni più emotive di sempre, apre con una preghiera e una benedizione l’ultima fatica degli U2, che vede la band fare i conti con un mondo più vicino al precipizio di quanto non lo sia mai stato dall’inizio della loro carriera. Affrontano il momento calibrando grandeur e grazia, imbrigliando il loro onesto passato post-punk con la loro eccezionale disinvoltura con le movenze del pop moderno, complici i producer Jacknife Lee, Ryan Tedder, Steve Lillywhite e Danger Mouse, tra gli altri. Come si conviene a tempi oscuri, nel disco abbondano immagini di amore e luce (There Is a Light, Lights of Home, Ordinary Love, Love Is Bigger Than Anything in Its Way), e c’è pure un’incursione di Kendrick Lamar che snocciola qualche beatitudine biblica. Sacralità, sì, ma anche puro divertimento. Come The Showman (Little More Better), un vintage sock-hop shimmy-shake, in cui il disincantato protagonista dichiara spudoratamente: “Ho semplicemente troppa poca autostima per arrivare dove voglio arrivare”. Siamo di fronte a un mito della creazione rock & roll che mostra l’eterna magia della musica, consegnata da una band che si rifiuta di lasciarla affievolire.

2. “Melodrama” Lorde

A vent’anni, il prodigio teen di Royals ha alzato l’asticella, coniugando nel suo secondo LP, co-prodotto dal prezioso Jack Antonoff, gli intensi panorami della musica elettronica con la dimensione umana e la sartorialità. L’invulnerabile liceale sarcastica ha sì ampliato la sua gamma emotiva, ma anche quella musicale, con chitarre e ottoni a intrecciare ritmi sintetici ed effetti dub. Per i più audaci, il disco può rievocare la dea dell’art-rock Kate Bush (si pensi al singolo Green Light). Ma il suo risultato più ragguardevole è stato far percepire il pop del ventunesimo secolo tanto genuinamente intimo quanto sconfinatamente ampio. Un successo destinato a diventare la pietra di paragone per le nuove leve del pop degli anni a venire.

1. “DAMN.” Kendrick Lamar

In vetta a questa classifica, la voce più potente del rap, che nulla ha più da dimostrare se non la sua costanza. Mentre To Pimp a Butterfly del 2015 e Untitled Unmastered del 2016 demolivano formalmente il rap con flow eterogenei, i caleidoscopici beat di Flying Lotus e le afro-deliche jam jazz-funk di Kamasi Washington, Damn. è la riprova di quanto gli basti spiattellare rime per abbagliare. In Feel, Lamar rovescia i suoi pensieri su un’ipnotica slow jam stile Sounwave, andando avanti ininterrottamente per qualcosa come 50 versi di fila, uno sfoggio di virtuosismo sinaptico che riecheggia lungo tutta la sequenza. L’impegno politico non è stato accantonato, ma qui c’è molto più esame di coscienza. Nell’impavida Fear, uno dei suoi momenti più profondi, narra un’intera vita di ansie, tra cui la “paura di perdere la creatività”. Sentimento comprensibile, anche se – vedendo come stanno le cose – direi che non ha nulla di cui preoccuparsi.