Club To Club visto dal suo fondatore: intervista a Sergio Ricciardone | Rolling Stone Italia
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Club To Club visto dal suo fondatore: intervista a Sergio Ricciardone

Il festival torinese più osannato nell'elettronica è arrivato alla sua 18esima edizione: un'occasione importante per fare il punto della situazione con il suo padre spirituale.

Photo by Giorgio Perottino/Getty Images for OGR

Photo by Giorgio Perottino/Getty Images for OGR

TURIN, ITALY - SEPTEMBER 24: Club To Club Festival Director Sergio Ricciardone attends a press conference titled 'One Year anniversary' to present the events of 2018/2019 at OGR Officine Grandi Riparazioni on September 24, 2018 in Turin, Italy. (Photo by Giorgio Perottino/Getty Images for OGR)

Club To Club è diventato un ometto. Quest’anno infatti il festival torinese di avant-pop ed elettronica spegne 18 candeline. Una per ogni anno da quel fatidico 2002 della prima edizione (doppia, quindi i conti tornano).

E se è vero che per festeggiare la maturità si fanno di solito cose stupide—io per esempio ho parcheggiato la Panda di mia madre dentro una cabina telefonica—lo stesso non si può dire per quello che, torniamo a ribadirlo, è il migliore festival in Italia. Aphex Twin, Beach House, Blood Orange, Jamie xx: i nomi che si alterneranno al Lingotto dal 1 al 4 novembre dimostrano solo in parte che l’evento creato da Sergio Ricciardone, direttore artistico e presidente di Xplosiva, si presenterà nel migliore dei modi alla sua festa di compleanno. Il resto bisognerà capirlo dal vivo, testando con i propri occhi la rifrazione de “La luce al buio”, che quest’anno è il tema del festival.

Siccome allora la maturità è una tappa fondamentale nella vita, forse la prima vera occasione per fare il punto su ciò che si è fatto e che si farà, la scusa era perfetta per scambiare due battute con Sergio. Magari proprio alla presentazione del festival che c’è stata al BASE di Milano.

Come si sta due settimane prima di Club To Club?
È il momento più difficile. Perché sei quasi arrivato, devi fare funzionare il festival, ma in queste due settimane ti giochi tutto.

In termini anche di vendita dei biglietti?
Tutto, anche se devo dirti che i biglietti stanno andando molto bene quest’anno. Banalmente, in termini proprio strutturali. Parlo di tutto ciò che riguarda l’organizzazione, la produzione, la logistica, la sicurezza: le cose che odio di più in assoluto. Io sono una persona non pratica, quindi è il momento più faticoso. Mi arrivano delle questioni che sono pura filosofia, cose che non mi dovrebbero competere ma mi competono perché sono il legale rappresentante. Sono molto stanco, ecco.

Non hai un po’ di paura, essendo il legale rappresentante, che qualcosa possa andare storto?
Tutti gli anni.

Tutti gli anni compresa la prima edizione?
No, anzi. Più passano gli anni, più cresce la responsabilità. Perché con essa cresce anche il festival. 18 anni fa il festival, non dico amatoriale perché non lo è mai stato, però si misurava con dinamiche completamente diverse. Noi ora in ufficio siamo in 25, fissi. E quando parli con una persona, ci sono tutte delle procedure che 18 anni fa mi sarei sognato. All’epoca facevo l’artista, quindi vedevo il festival non da organizzatore ma da artista. Ero molto attento ad altre cose.

Tra l’altro so che la Turbo Recordings, l’etichetta di Tiga, ha anche pubblicato un tuo disco all’epoca.
Nel mio lungo percorso per capire cosa fare da grande ho fatto anche musica, producendola con Luca Baldini a nome Drama Society. Tra l’altro, il nostro primo live è stato al Sonár de Dia, siamo stati fra i primi italiani a farlo. Il primo disco invece, sì, è uscito per l’etichetta di Tiga. Mentre il secondo è entrato anche nelle classifiche undreground, si trova su Spotify.

Magari è per questo che, chi ci suona, si trova sempre bene. Una volta davanti a un Negroni Richard Russell mi ha detto che «Club to Club è il migliore festival al mondo».
Ti rispondo dopo il festival. Cerchiamo sicuramente di migliorare ogni anno, e gli artisti vengono molto volentieri a suonare. Si rendono anche disponibili ai talk. Comunque la cosa bella di Club To Club è che ci sono pochi slot per suonare. Ci sono 30-40 slot e, essendo anche un po’ un boutique festival, gli artisti si sentono anche un po’ responsabilizzati. Non siamo un festival da 150 slot, quelli che ti serve una mappa per girarli. Pochi ma super selezionati.

Avete molto a cuore la questione dell’avant-pop.
Secondo me è giusto, è quello che siamo noi. Non mi vedo un festival da 100 palchi. Anzi, è più facile che in futuro mi veda un festival fra Torino e Milano: un City To City.

Quanto sono importanti per Club To Club gli eventi satellite distribuiti lungo tutto l’anno?
Stanno crescendo per importanza, ma quello che facciamo a Milano ha una certa responsabilità. Perché è una città molto viva, con una qualità degli eventi piuttosto alta e un pubblico giustamente esigente.

Club To Club non è più tanto itinerante da un club all’altro, ma si è stabilito al Lingotto da anni. I fan della prima ora secondo te hanno sofferto un po’ questa cosa?
Però se ci pensi noi facciamo il Symposium, esci da lì e vai alle OGR, esci da lì e vai al Lingotto, che detto tra noi è così grande che ci metti un attimo a girarlo a piedi, poi c’è Venaria, poi la domenica c’è una colazione da Lavazza e c’è il Block Party la sera. La gente comunque si muove eccome.

Quanti club eravate arrivati a gestire prima della transizione al Lingotto?
Anche cinque o sei in contemporanea. Era una roba onestamente impossibile. Non avevi il controllo di quello che stava succedendo, eri costantemente al telefono per cercare di capire cosa stava succedendo negli altri posti.

Prima ancora di artista, tu comunque organizzavi eventi.
A 18 anni ho iniziato a organizzare eventi in maniera spontanea a Torino. Parliamo dell’89, ero appena tornato da Londra completamente estasiato dalla new wave. Così ho lanciato questa serata un po’ indie dance, con il suono di Manchester tipo Happy Mondays e Stone Roses, e un po’ new wave. Poi ho fatto la prima trasmissione di musica elettronica su una radio di sinistra..

Che era un genere erroneamente visto come di destra.
Esatto, mi insultavano tutti. Poi facevo recensioni su fanzine, intervistavo le band. Sono stato il primo a intervistare i Radiohead in Italia, al concerto di San Colombano al Lambro.

Sono cose che faresti ancora?
Certo, è solo che non ho tempo. Quanto alla parentesi da DJ, non è che fossi un mostro di tecnica, non mixavo in battuta. Ma tutto quello che ho fatto in qualche modo mi è tornato utile ora.

Sergio Ricciardone

Sergio Ricciardone

Com’era la Torino di allora?
Era molto libera, liberissima. Ma a essere cambiata è la società in generale. Erano anni in cui la Fiat stava fallendo, la città era terrorizzata dal futuro incerto. Quindi c’era una grande libertà. Io nel ’97/’98 organizzavo serate nei club che duravano 12 ore. Facevamo arrivare le colazioni alle 7-8 del mattino e si continuava a ballare. Ora sarebbe letteralmente impossibile. Non esistono permessi che te lo consentano. Per questo quando vado al Panorama Bar a Berlino penso: “Sì, però nella vita ho visto di meglio”. Ma il posto dove ho visto le cose più incredibili nella mia vita è sicuramente il Link di Bologna.

Milano è un po’ più permissiva in questo momento, ma siamo comunque a livelli tragici.
Noi non facciamo un prodotto pronto, preconfezionato. Le rare volte in cui l’ho fatto—sai, l’evento facile e indolore—mi è andata sempre di sfiga, tipo che gli alpini bloccavano gli accessi al club. Lì ho capito che il mio karma mi impone di sperimentare. Se siamo bravi facciamo anche i numeri. Milano permette sempre di sperimentare, è una seconda casa per me. Sogno una macro-city unica fra Milano e Torino, e ripeto anche un bel festival. Se ci pensi poi, fra milanesi e torinesi siamo molto simili. E magari potremmo aprirci ad ancora più musiche.

Ultime due domande. La prima: quale artista hai sempre voluto invitare ma non hai mai potuto?
Beh, sono quegli artisti che non sono più in attività o che sono deceduti. Non mi sono mai posto la domanda, ma se devo rispondere ti dico i Cocteau Twins.

E qual è l’artista di cui sei stato più soddisfatto? Quello che hai invitato al festival e che rimane il migliore di tutti.
Franco Battiato.

Alzo le mani. E magari le batto pure.
Durante No Time No Space ho pianto. Non ho problemi a dirlo. E ho avuto pure l’onore di conoscere il Maestro, grazie al Symposium. Persona di rara intelligenza, spiritoso, pungente. Tra l’altro, per i primi 15 anni della mia vita non ho ascoltato musica, mai. A 15 anni mia sorella mi porta al mio primo concerto. Di chi era? Di Battiato.

Urca, sei stato fortunato. Ma davvero mai prima di allora hai considerato la musica?
Mai. La musica non era parte della mia famiglia. Però da bambino organizzavo spettacoli in casa. Mi ricordo che avevo 6 anni e riempivo la casa di parenti e amici. Tutti paganti, ovviamente.

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