Bob Marley, l'incontro con la leggenda del reggae | Rolling Stone Italia
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Bob Marley, l’incontro con la leggenda del reggae

Nel giorno dell'anniversario della sua morte, ricordiamo il primo incontro fra il più grande artista reggae di tutti i tempi e Rolling Stone, quando nella sua casa di Kingston ci raccontò le sue canzoni, e il suo più grande sogno.

Bob Marley, l’incontro con la leggenda del reggae

Foto via IPA Agency

Un estratto dalla prima cover story di Rolling Stone dedicata a Bob Marley: uno sguardo inedito sulla vita del cantante, incontrato nella sua casa in Giamaica mentre si preparava a diventare una superstar internazionale. (DA RS N. 219, 12 AGOSTO 1976)

Bob Marley è seduto sul davanzale al primo piano della sua casa di Hope Road, sta fumando l’inevitabile canna e osserva i rami degli alberi tropicali del giardino, assorto in una meditazione a base di erba. In effetti, è così fatto che potrebbero passare diversi secondi prima che si accorga della presenza di qualcuno. Arrivando nella sua casa, la prima cosa che ho notato è la BMW grigio-argento parcheggiata nel vialetto. La seconda è che la casa non è stata tutta pitturata, come se l’imbianchino, dopo essersi fumato uno spinello durante la pausa, sia rimasto così affascinato da come la tonalità quasi psichedelica di rosa shocking rifletta la luce di Jah da essersi dimenticato di dipingere anche il resto.

Bob Marley & The Wailers - Buffalo Soldier (Official Music Video)


Hope Road è una strada relativamente benestante di abitazioni della classe media, a uno sputo da alcuni degli slum peggiori dell’emisfero occidentale. Hope House, circondato da un prato rigoglioso con delle piccole strutture in fondo (una delle quali è stata convertita in uno studio di registrazione) sembra un palazzo secondo gli standard del luogo. In generale, il posto assomiglia a quell’insieme di sgangheratezza e regalità da popstar resa celebre dai Jefferson Airplane alla fine degli anni ’60 ai tempi di Volunteers, quando nel testo di We Can Be Together citavano lo slogan delle Black Panthers: “Up Against The Wall Motherfucker”. L’unica differenza è che, invece di essere piene di graffiti di protesta fosforescenti con i colori dell’arcobaleno, le pareti delle stanza spoglie di questa casa sono dipinte di khaki, giallo senape e cremisi, ovvero i colori cupi, viscerali e militanti del nazionalismo nero.

Bob Marley nel 1975



Bob ci ha sicuramente tenuto d’occhio mentre ci avvicinavamo in macchina alla sua casa. Ci aspetta seduto, sembra Che Guevara con i dreadlocks raccolti in un basco, e non è difficile immaginare quali siano le preoccupazioni che affollano i suoi pensieri. Ora che persino il Time lo ha definito “una forza politica in grado di competere con quella del governo giamaicano”, probabilmente sta considerando che l’ipotesi di un raid dei militari del governo coloniale, il cui quartier generale si trova a meno di un miglio di distanza da Hope Road, non è poi così remota. Se non altro questo spiega la tensione che aleggia sulla sua casa, che la fa sembrare un accampamento della guerriglia. Data l’unicità della sua posizione è anche possibile che stia calcolando l’effetto che le imminenti elezioni parlamentari a Kingston possono avere sulle vendite del suo ultimo singolo, una feroce dichiarazione politica intitolata Rat Race. Comunque sia, ha l’espressione accigliata di un Generale che è stato costretto a interrompere ragionamenti di importanza vitale, mentre vede tre mercenari bianchi di Babilonia sulla porta d’ingresso di casa.

Cercando di mostrare una certa grazia, si alza e ci guida nel giardino dove ha accettato di posare per una session fotografica appoggiato al cofano della sua BMW, schivo e riservato come una vera popstar di fama mondiale. Forse questo atteggiamento fiero e imperialista è un’eredità di suo padre, che si dice fosse un ufficiale dell’esercito britannico. Se siete così ingenui da chiedervi perché mai questo ribelle ed eroe di una cultura antimaterialistica possieda la stessa auto che potrebbe guidare il primo ministro della Giamaica Michael Manley, la risposta è un esempio di sottile logica rasta: BMW sta per Bob Marley and the Wailers. E come mai, potreste anche chiedervi, ha voglia di sottoporsi a una session fotografica? «Ti dico una cosa», risponde Marley: «Se il numero dei miei dischi venduti è uguale a quello delle foto che mi scattano, allora per me è grandioso. Mi avranno fatto almeno due milioni di foto fino a ora!».

Foto via IPA Agency

Questo non vuol dire che Marley sia uno che accetta compromessi su qualsiasi cosa. Stu Weintraub, il suo promoter americano, mi ha raccontato che è stata un’impresa riuscire a chiudere con gli Wailers un tour negli Usa: «Ogni due settimane arrivava un emissario dalla Giamaica a dirmi di volta in volta sì o no. È andata avanti così talmente tanto tempo che, quando finalmente sono riuscito a incontrare Bob di persona nel mio ufficio a New York, la prima cosa che gli ho detto è stata: “Allora esisti davvero, sei un uomo in carne e ossa! Cominciavo ad avere dei dubbi”». Fin dall’inizio, Weintraub si è rifiutato di accettare le offerte di far suonare gli Wailers prima di qualsiasi altra band, compresi i Rolling Stones, che gli hanno dato l’opportunità d’oro di espandere il suo seguito offrendogli il posto di spalla del loro ultimo tour. «Ovviamente mi sono chiesto se stavo facendo la cosa giusta», dice il promoter, «come fai a rifiutare un’offerta del genere e non chiedertelo? Ma io sentivo che, anche se non era ancora molto conosciuto, Bob Marley era destinato a diventare una star. E le star non fanno da spalla a nessuno, le star suonano da headliner». Quando ha visto che le presenze del suo recente tour erano oltre ogni sua aspettativa, si è convinto di aver fatto bene. «Potevamo riempire tranquillamente posti come il Madison Square Garden, ma ho scelto di presentare Marley in sale di media grandezza, in un contesto più intimo, in modo che potesse venire fuori chi è veramente, un uomo profondamente religioso, che diffonde un messaggio profondamente religioso», spiega Weintraub.

Bob Marley & The Wailers - Exodus (Live At The Rainbow 4th June 1977)

Lo stesso Marley vi dirà che il motivo per cui si sottopone all’invasione della sua privacy da parte dei giornalisti e dei fotografi stranieri non è la fama o il successo, ma la sua volontà di diffondere il messaggio del rastafarianesimo: «Per la maggior parte del tempo sto con i miei fratelli, con la mia famiglia», dice facendo un ampio gesto con le braccia, come se volesse abbracciare tutta la sua numerosa famiglia che gli gira intorno, suo figlio Robbie di 5 anni che guida una macchina giocattolo sul prato e una ragazza molto carina che fuma una canna come se fosse una sigaretta Virginia Slim e guarda pensierosa giù dalla finestra al piano di sopra in cui abbiamo visto Bob quando siamo arrivati. «Per la maggior parte del tempo non vedo nessuno tranne loro, sto qui, scrivo musica e medito, mon. Ma a volte mi piace parlare con i giornalisti, perché sono lenti a capire il mio messaggio, mon. A volte va bene parlare, perché serve a chiarire le cose, mon… capisci?».

La conversazione è resa difficile dal suo pesante dialetto patois, e ancora di più dall’uso di alcune esotiche espressioni rastafariane come “I and I” (che io ho frainteso per una specie di rafforzativo di “Io”, finché non mi hanno spiegato che significa “Tu e io”, oppure indica tutta l’umanità), ma nonostante questo Marley è desideroso di esporre il messaggio che sta dietro alla sua musica. «Non mi piace quando non capiscono il mio messaggio o lo fraintendono, mon», dice, appoggiandosi al cofano della sua BMW con il suo basco alla Che Guevara e facendo cadere la cenere dal suo spinello grande come un sigaro come se fosse Edward G.Robinson nel classico dei film di gangster Little Caesar. «Mi viene da ridere quando i giornalisti scrivono che sono come Mick Jagger o qualche altra superstar del genere… Devono ascoltare meglio la mia musica, perché il messaggio non è lo stesso… Noooo, mon, il reggae non è il twist, mon!».

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L’idea che qualcuno possa mettere insieme le due cose e confonderle sembra irritarlo e divertirlo al tempo stesso, e in effetti ne avrebbe ragione, perché il messaggio pieno di rabbia della musica roots giamacana è molto distante dall’inutile elenco di parti anatomiche di un Chubby Checker e degli altri grandi del twist. È altrettanto vero, però, che questa musica del ghetto ibrida ha molto a che fare con alcune deliziose incongruenze pop come il lamento di James Brown (o persino di Hank Williams), in questo caso trasportato in una foresta di palme tropicali, così come i ritmi africani e le sette di fondamentalisti pentecostali, i cosiddetti “Holy Roller”, hanno a che fare con cose molto diverse come il cristianesimo e il voodoo.

Marley stava già scavando nella musica mainstream per insediare il suo mito quando, nel terzo album pubblicato in America, ha creato un eroe folk chiamato Natty Dread, le cui origini sono più vicine al prototipo del ribelle raccontato in classici successi radiofonici come He’s a Rebel delle Crystals o Leader of the Pack delle Shangri-La che al vecchio Marcus Garvey. Del resto, la sua madre giamaicana è oggi una cittadina americana naturalizzata che possiede un negozio di dischi a Wilmington, Delaware. Marley stesso ha passato due anni con lei a Wilmington, lavorando in catena di montaggio alla fabbrica della Chrysler, si dice, prima di tornare nella sua isola nativa alla fine degli anni ’60 per evitare la leva obbligatoria della guerra in Vietnam. Quando gli ricordo quel periodo, Marley mormora qualcosa a proposito del fatto che negli Stati Uniti «va tutto troppo veloce, le persone devono lavorare troppo e hanno troppe preoccupazioni». Gli chiedo di spiegarmi meglio, ma a questo punto il suo dialetto patois diventa così stretto e incomprensibile che sembra stia parlando da solo. Si chiude in se stesso, evoca il privilegio inconfutabile di essere rasta e ritorna nel suo stato semicomatoso, trascendendo completamente la mia presenza. La riluttanza di Bob Marley a parlare del tempo che ha passato a Wilmington mi sembra logica, come il rifiuto di Bob Dylan di parlare degli anni del liceo a Hibbing, Minnesota.

Bob Marley ritratto a Los Angeles nel 1975. Foto di Kim Gottlieb Walker

Il mito va protetto, soprattutto in questo momento in cui i puristi del reggae si lamentano che il suo ultimo album, Rastaman Vibration, è molto meno roots dei precedenti e un filo troppo vicino al rock&roll. Eppure, la Island Records mi fa sapere che le vendite hanno superato quelle di tutti i suoi ultimi tre album messi insieme, e che il disco sta scalando le classifiche, grazie anche al suo ultimo tour. I nuovi detrattori di Marley non sono pronti a relegarlo in quella specie di limbo commerciale in cui oggi langue Jimmy Cliff, il primo artista raegge diventato famoso negli Stati Uniti, ma stanno puntando sui Burning Spear, una band molto più influenzata dai canti e dalle tradizioni musicali africane. Sono loro il gruppo da ascoltare se vuoi un po’ di vera musica roots nuda e cruda. È come quando i puristi del folk gridavano “venduto” a Bob Dylan: non hanno capito che Bob Marley, proprio come Bob Dylan, è ormai oltre i generi musicali, persino oltre la sua stessa musica di origine, il roots! Bisogna vederlo sul palco mentre balla e si muove come un derviscio rotante, con i lunghi dreadlocks che volano a mulinello, per rendersi conto che Bob Marley è una vera rock&roll star.

È il mio sogno, mon, è il sogno di ogni rasta. Tornare in Etiopia e lasciare Babilonia, dove i politici non permettono a me e ai miei fratelli di essere liberi

Rimane comunque un uomo profondamente devoto alla sua fede. Quando parla del pellegrinaggio che ha intenzione di fare in Etiopia, risulta chiaro che il suo cuore si trova esattamente negli altopiani di quella terra promessa: «È il mio sogno, mon, è il sogno di ogni rasta. Tornare in Etiopia e lasciare Babilonia, dove i politici non permettono a me e ai miei fratelli di essere liberi e vivere nel nostro modo. Per questo io andrò là, comprerò della terra e porterò la mia famiglia con me. Babilonia cadrà, questo è sicuro, tanta malvagità dovrà finire un giorno, ma quando? Io e i miei fratelli non possiamo più aspettare, perché il nostro Jah ci ha detto di tornare a casa nella nostra madreterra, l’Etiopia, e lasciare che Babilonia vada in rovina travolta nella sua stessa malvagità, mon. Non so come avverrà questo, ma deve succedere…».

È difficile per un estraneo riuscire a controbattere alla logica manichea dei rasta, secondo cui è tutto bianco o tutto nero, e quindi rimaniamo in silenzio per un po’ a riflettere, osservando il tramonto che scende nel giardino, in cui molti dei familiari di Marley sono in piedi, in uno stato di agitazione nervosa leggermente inquietante per noi. Marley sembra aver fatto pace con la contraddizione di essere allo stesso tempo il rispettato portavoce di una setta religiosa della popolazione nera della Giamaica e un prodotto commerciale da esportare nelle arene rock del mondo, mentre i membri della sua estesa famiglia con il loro silenzioso disprezzo e i loro impenetrabili occhi a mandorla cominciano ad avere un’aria sempre meno ospitale. Non che vogliano fare niente di strano, tipo l’insurrezione dei Mau Mau in Kenya, sia chiaro. Anche perché Bob Marley è il padre di famiglia che pagherà il loro viaggio verso la terra promessa, e la sua volontà è chiaramente la legge di questo posto.

Foto via IPA Agency

All’improvviso Marley si illumina: «Ci vorranno molti anni, e forse ci sarà anche uno spargimento di sangue, ma la giustizia prevarrà un giorno… Sì, mon, lo so, perché ogni volta che suono fuori dalla Giamaica, in tutto il mondo, vedo fratelli rasta con i dreadlocks… Crescono e si diffondono come la marijuana nei campi… Sì, mon, sono felice di vedere Natty Dreadlocks che crescono forte ovunque… Sono il futuro, mon». Chiedo se non teme che se i giovani invece di seguire la dottrina rastafari si facessero crescere i dreadlocks per emularlo, il suo messaggio possa venire compromesso e il reggae trasformarsi in una moda («come il Twist»), ma lui insiste: «Sarebbe una buona cosa, mon. Sarebbe un inizio. Prima farsi crescere i dreadlocks, poi capire il messaggio e diventare più giusti».

Gli ricordo che un tempo gli hippy (si ricorderà degli hippy?) erano convinti che solo farsi crescere i capelli e fumare canne li rendesse più giusti, e che oggi non è raro vedere dei poliziotti con i capelli lunghi, ma lui ribatte che il paragone non regge. «Non vedrai mai un rasta diventare poliziotto, mon», risponde secco, chiaramente infastidito dalla mia insinuazione. «Lo dico nella mia ultima canzone, Rat Race: “Rastaman non lavora per la CIA”. Non succederà mai, mon, perché i rasta non sono come gli hippy. Il rastaman è capace di resistere a lungo, l’hippy non resiste e fallisce. L’hippy deve resistere solo altri cinque anni, finché non arriveremo noi. Allora anche gli hippy diventeranno rasta. Sì, mon! Guardati, anche tu hai la barba e i tuoi capelli sembrano dreadlocks!».

Bob Marley non è un uomo a cui manca il senso dell’umorismo, questo è certo. Putroppo il suo modo di fare cambia di colpo quando il fotografo gli chiede di spostarsi in un altro punto del giardino, in cui c’è ancora un po’ di luce. Marley risponde secco di no. Se vuole fargli una fotografia in un altro posto, allora dovrà tornare un altro giorno, dice. E a quel punto, le ombre dei fratelli rasta si allungano nel giardino sempre più buio, rendendo la distanza tra noi grande come tutta l’Etiopia.

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