25 anni fa usciva ‘The Downward Spiral’, il capolavoro dei Nine Inch Nails | Rolling Stone Italia
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25 anni fa usciva ‘The Downward Spiral’, il capolavoro dei Nine Inch Nails


Festeggiamo l’anniversario del classico della band di Trent Reznor rileggendo la recensione originale di 'Rolling Stone', pubblicata nel 1994

25 anni fa usciva ‘The Downward Spiral’, il capolavoro dei Nine Inch Nails

Trent Reznor

Foto: Getty

La recensione che state per leggere è stata pubblicata su Rolling Stone il 24 marzo 1994.

Con The Downward Spiral, i Nine Inch Nails hanno ridefinito il caos: suonano un hard rock accessibile che si muove su un tessuto di chiasso elettronico, rumore bianco, urla, il tremolio di una cassa sfasciata, sembra quasi che la band volesse sfruttare un pessimo impianto stereo come Jimi Hendrix faceva con la distorsione che strillava dagli amplificatori Marshall. È la nuova frontiera del rock & roll: musica che trascina gli indicatori del volume ben oltre il rosso. Con questo album, avete solo due possibilità: ascoltarlo a volume troppo basso o troppo alto.

Quando metterete su Mr. Self-Destruct, per esempio, la prima traccia del cd, i passaggi soft saranno soft soprattutto perché non rumorosi, come se ci stessimo allontanando da una festa gigantesca in mezzo alla strada, piena di chitarre violente e drum machine e chissà che altro. Ma quando toccherete il vostro preamplificatore per metter dentro un po’ di volume, il rumore tornerà a farsi sentire, e lo farà con talmente tanta violenza da farvi pensare che le casse potrebbero sciogliersi. Non c’è modo più semplice per convincere i vostri vicini a battere la scopa sul soffitto. Sfigati.

Non vi resterà che abbassare ancora il volume, e ricominciare il ciclo da capo. Certo, band come i Nirvana hanno già vinto il gioco delle distorsioni, ma Trent Reznor, il frontman dei Nine Inch Nails, è arrivato a livelli sadici, soprattutto perché le canzoni, senza il power riffing e gli ululati, e un numero infinito di sovraincisioni, sarebbero melodiche tanto quanto gli ultimi pezzi dei Beatles.

Quello che Robert Plant ha fatto con il post-blues, e Kurt Cobain con il grunge, Trent Renzor lo sta facendo con una sorta di death-disco – dolore esistenziale espresso attraverso il rock & roll. La sua prima hit Head Like a Hole, da Pretty Hate Machine, è arrivata a tanto così da diventare come Smells Like Teen Spirit – l’inno di un’intera generazione di disadattati geniali. Più avanti, i Nine Inch Nails hanno strappato lo scettro del Lollapalooza dalle mani dei Jane’s Addiction – e hanno anche venduto più magliette. E quando questo ibrido dance-punk è diventato popolare, un sacco di gente scommetteva che i Nine Inch Nails e i Ministry, le due band più importanti del genere, avessero il potenziale per ridefinire il rock a loro immagine e somiglianza.

I Ministry, ovviamente, l’hanno già fatto, con uno splendido frullato tra speedmetal e disco che ha convinto Beavis e Butthead e confuso chi è arrivato alla band dopo ascolti decisamente meno estremi. I Nine Inch Nails sono apparsi sui radar alla fine del 1992 con Broken, un’intrigante e inascoltabile meditazione basata su quanto Trent Reznor odiasse la sua vecchia etichetta discografica. L’Ep non fu un vero successo, ma liberò la band dall’impasse del secondo album.

March of the Pigs, il primo singolo estratto da Spiral, alterna puro tormento – l’angoscia dei maiali prima della macellazione – con un ritornello al pianoforte così zuccheroso che starebbe bene sulla pubblicità dei cereali. Piggy è una canzone d’amore perduto sussurrata e quasi tenera, con lo stesso peso emotivo di una ballad di George Jones. Il testo è pieno di metafore violente, probabilmente ispirate alla leggenda nichilista dell’omicidio dell’attrice Sharon Tate, ma l’album è meno nichilista di quanto potreste aspettarvi.

Registrato (e non per caso) nel salotto di Beverly Hills dove Sharon Tate è stata assassinata (il salotto, ancora non per caso, della casa dove abita Trent Reznor), The Downward Spiral esplora il tema n.1 nella poetica di Reznor – il controllo – in un migliaio di modi diversi. Paranoia, accettazione, il potere del sesso e della religione e delle armi, il potere delle vittime sui colpevoli, sono raccontati con la presenza schiacciante che avrebbe avuto Baudelaire di fronte a una batteria di Macintosh, una tastiera MIDI e una Stratocaster.

La voce di Reznor seduce e si insinua, oppure si trasforma nell’urlo di un animale; ti striscia nelle orecchie e si nasconde da qualche parte vicino al midollo allungato. A volte sembra esprimere un’emozione che non è nemmeno vera rabbia, soprattutto quando si lancia all’assalto con frasi come “Don’t you tell me how I feel”; “Your God is dead, and no one cares”, per arrivare a una quiete inaspettata.

The Downward Spiral è musica per replicanti: futurismo low-tech, mischiato al rock & roll.

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