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10 grandi album che hanno fatto flop appena usciti

Oggi siamo tutti capaci di dire che "Pet Sounds" dei Beach Boys è un capolavoro, eppure non era stato così automatico 50 anni fa. E non è il solo album diventato un classico ad aver toppato appena uscito

Un dettaglio della copertina di "Pet Sounds", l'album dei Beach Boys del 1966

Un dettaglio della copertina di "Pet Sounds", l'album dei Beach Boys del 1966

Cinquant’anni dopo, tutti sono d’accordo nel ritenere il capolavoro di pop orchestrale Pet Sound sia un classico intoccabile. Tuttavia, non si può dire che sia stato lo stesso per il pubblico nel 1966. Qui ci sono 10 grandi album che ci misero un po’ di tempo a costruire la loro eredità.

Beach Boys – ‘Pet Sounds’ (1966)

I fan dei Beach Boys, che si aspettavano di sentire celebrazioni più spensierate di automobili, ragazze e surf su precise armonie ‘americane’, non erano sicuri su come prendere gli arrangiamenti orchestrali, intricati e impressionistici a cui Brian Wilson li espose. Nonostante la psichedelica “Sloop John B” e l’onirica “Wouldn’t It Be Nice” fossero entrate entrambe nella Top 10, Pet Sounds fu l’album che riscosse meno successo dal loro debutto del 1962. Come ha riportato Dave Marsh: “Pet Sounds non fu un flop commerciale, ma un segnale che il gruppo stava perdendo il contatto con i suoi ascoltatori”. Ma i coetanei di Wilson stavano ascoltando, e così avrebbero fatto gli artisti più giovani, e le innovazioni di Pet Sounds avrebbero risuonato nell’art-rock degli anni ’70 e nell’indie-pop dei ’90.


The Velvet Underground and Nico, ‘The Velvet Underground and Nico’ (1967)

Quando la celebrata band newyorkese dei Velvet Underground pubblicò il proprio album di debutto, a lungo rimandato, nel marzo 1967, il loro approccio cool e sballato li rese un oggetto misterioso da classificare. (Un annuncio del Village Voice che circolava sulla pubblicazione dell’album affermava che fosse “così underground da farti venire le vertigini per la profondità”). Tuttavia, The Velvet Underground & Nico all’inizio fu a malapena compreso dal pubblico, nonostante la copertina ‘sbucciabile’ dell’album fosse un modo comodo per tenere fra le mani un’opera originale di Andy Warhol. Come fa notare Richie Unterberger nella sua biografia della band, White Light/White Heat, l’etichetta del gruppo, la Verve, non diede una grande spinta all’album, e le radio commerciali non erano ancora pronte per qualcosa di così fuori dagli schemi. The Velvet Underground & Nico raggiunse con grande difficoltà la posizione 199 nella classifica Billboard top 200 nel maggio 1967, arrivando al massimo al numero 195. Rientrò in classifica in autunno, scivolando fra le ultime posizioni finché la Verve non decise di ritirarlo a causa di una querela mossa da Eric Emerson, riluttante ad apparire come soggetto del retro copertina. La scarsa recezione, almeno, creò l’occasione per quest’affermazione famosa tratta da un’intervista rilasciata a Musician da Brian Eno nel 1982: “Stavo parlando con Lou Reed l’altro giorno e mi ha detto che il primo disco dei Velvet Underground ha venduto 30.000 copie nei primi cinque anni. Le vendite si sono rialzate negli ultimi anni, ma voglio dire, quell’album è stato così importante per tantissime persone. Penso che chiunque abbia acquistato una di quelle 30.000 copie ha formato una band!”.

The Byrds, ‘Sweetheart of the Rodeo’ (1968)

Erano alte le aspettative per l’uscita dei Byrds, dopo il successo di The Byrds’ Greatest Hits del 1967. Difatti l’ambizioso The Notorious Byrd Brothers del gennaio del 1967 raggiunse soltanto la quarantasettesima posizione nella classifica degli album di Billboard, mentre il suo successore pubblicato ad agosto, Sweetheart of the Rodeo, si fermò alla 77. Tuttavia Sweetheart segna la prima volta in cui una band rock navigata suonò autentica musica country, e divenne l’uscita più influente del gruppo. Sweetheart servì anche come campo di battaglia per una competizione più vasta tra la visione “Americana” di Roger McGuinn (che tolse la maggior parte dei crediti per le sue parti vocali) e quella del partigiano del country Gram Parsons (che contribuì alle uniche due tracce originali dell’album). Scritto tra parentesi in un paio di canzoni di Bob Dylan (Nashville Skyline sarebbe uscito poco dopo), Sweetheart diede la scintilla alla formazione dei Flying Burrito Brothers ed è stata la solida base su cui praticamente si regge ogni lavoro alt-country uscito da lì in poi.

The Kinks, ‘The Kinks Are the Village Green Preservation Society’ (1968)

Nonostante fosse stato annunciato da Pete Townshend come un “capolavoro” paragonabile a Sgt. Pepper’s, la meditazione nostalgica di Ray Davies sulla vita pastorale britannica vendette solo 100.000 copie al momento della sua pubblicazione, non entrando nemmeno in classifica. La macchina fabbrica hit dei Kinks era ferma dai tempi di Something Else del 1967, e Davies passò dalla felicità perfezionista a quello che chiamò il “pet dream” del suo sequel – che ha al suo interno un maggior senso di ansia e caos mentale come si sente in alcune tracce di Village Green, ad esempio “Animal Farm” e “Big Sky”. Nonostante sia stato inizialmente eclissato (fu pubblicato lo stesso giorno del White Album dei Beatles), Village Green proseguì il suo cammino diventando, ad esclusione delle compilation, l’album più venduto dei Kinks, anche grazie all’inclusione di “Picture Book” in uno spot della HP.

The Monkees, ‘Head’ (1968)

Sostenendo di essere state pedine inconsapevoli nelle mani del regista Bob Rafelson e dello sceneggiatore Jack Nicholson, i Monkees fecero la parodia di se stessi nel popolare show satirico Head, un divertente art-film psichedelico che recuperò dagli incassi circa il 2% del suo costo di produzione. Anche la sua artistica e pungente colonna sonora incontrò un’eclissi commerciale. Mentre The Birds, the Bees & the Monkees, pubblicato all’inizio del ’68, raggiunse la posizione numero 3, Head arrivò al massimo alla 45. L’album alterna sei delle migliori performance della band (Carol Re e Gerry Goffin in “Porpoise Song” e Michael Nesmith in “Circle Sky” sono particolarmente grandiosi) con frammenti di dialoghi ed effetti sonori del film. Leon Russell, Neil Young e Ry Cooder aiutarono nel lavoro in studio, ma era troppo per Peter Tork, che ha lasciò la band prima della pubblicazione dell’album.

The Stooges, ‘The Stooges’ (1969)

Quando uscì The Stooges fu un fallimento commerciale – raggiunse solo la posizione 106. Alla fine il resto di noi avrebbe compreso grazie alla fanbase di tossici visionari degli Stooges, al modo in cui Ron Asheton si circonda in stupefacenti ondate di wah-wah e in cui suo fratello Scott suona la batteria, come fosse abbandonato su un pianeta con il doppio della forza gravitazionale della terra. Mettici sopra anche il modo in cui Iggy Pop ringhia e grida alla sua maniera in questi brani ‘pestoni’ e in questi lamenti funebri – selvaggi e cerebrali allo stesso tempo – l’album è qualcosa che probabilmente nessuno di noi riuscirà mai veramente a comprendere.

New York Dolls, ‘New York Dolls’ (1973)

I ragazzini americani abituati all’hardrock dei Sabbath o all’eleganza degli Aerosmith non erano pronti per questi casinisti in drag. David Johansen ululava e s’imbronciava, si strusciava come fosse il figlio di Mick Jagger e Shangri-La e le schitarrate di Johnny Thunder sembravano riff di Chuck Berry ascoltati attraverso un tritacarne arrugginito. Alla fine del 1973, i lettori di Creem piazzarono i Dolls sia nella lista “miglior gruppo esordiente” sia in quella “peggior gruppo esordiente”, e persino i critici innamorati di loro pensavano che il producer Todd Rungren avesse esagerato con il loro sound. I New York Dolls si schiantarono alla posizione 116 della classifica Billboard, e difficilmente qualcuno comprese che quest’album era un classico finché non arrivò il punk rock a dimostrarlo.

Ramones, ‘Ramones’ (1976)

Il debutto della prima ‘famiglia’ punk del Queens giunse sulla scia dell’hype creato da un mucchio di scrittori newyorkesi che avevano visto la band al CBGB ed erano rimasti colpiti dalle loro composizioni inquiete e dalla presenza scenica ruggente – “Quattro ragazzi davvero incazzati vestiti con giacche di pelle nere”, riporta Legs McNeil nella sua raccolta di testimonianze del punk, Please Kill Me. Ma l’estetica brutalmente ridotta all’osso del punk di New York era decisamente ‘fuori tempo massimo’ con i gusti dell’epoca, tendenti a un rock più sfarzoso. Ramones, che fu pubblicato due mesi dopo la sessione di registrazioni durata una settimana, vendette soltanto 6.000 copie negli Stati Uniti durante il suo primo anno di messa in commercio. Nel 2014, 38 anni dopo il suo rilascio, l’album sarebbe stato certificato con il disco d’oro.

Marvin Gaye, ‘Here, My Dear’ (1978)

Durante la causa di divorzio durata due anni, Marvin Gaye accordò che la sua ex-moglie, Anna Gordy, avrebbe ricevuto una parte delle royalties dall’album che stava per pubblicare. E fu così che la Gordy divenne la musa di Here, My Dear, un doppio album tenebroso che racchiuse, in canzoni come “When Did You Stop Loving Me, When Did I Stop Loving You”, ogni emozione negativa di cui Gaye fece esperienza durante la fine del suo decennale matrimonio. Al tempo l’album ricevette recensioni mediocri, e il pubblico non seppe cosa farsene di uno dei più grandi sex symbol dell’R&B in versione rancorosa e affranta. Here, My Dear raggiunse solamente la posizione 26 della classica Billboard 200, dopo che i suoi ultimi due album erano arrivati nella top 5. Il singolo “A Funky Space Reincarnation” mancò la Hot 100, solamente un anno dopo che “Got to Give It Up” aveva dominato la classifica. Nonostante alcuni credessero che lo scarso appeal dell’album fosse stata una scelta strategica per fare un dispetto all’ex-moglie (che avrebbe appunto tratto un profitto dalle vendite), si racconta che Gaye sia rimasto deluso dallo scarso successo del disco. Ma dopo una ristampa del 1994, l’album fu caldamente rivalutato, entrando subito nella lista dei più grandi album di sempre stilata da Rolling Stone, Mojo e molti altri. E lo studio di Los Angeles di Gaye, il Marvin’s Room, dove l’album fu registrato, è diventato un posto dove molte star vanno a mostrare i propri sentimenti, come fece Drake con la sua hit “Marvins Room” del 2011.

Beastie Boys, ‘Paul’s Boutique’ (1989)

Licensed To Ill fece dei Beastie Boys un fenomeno pop festaiolo, vendendo 10 milioni di copie e portando l’hip-hop all’americano medio come mai prima di allora. Ma quando il trio lasciò la Def Jam per riapparire circa tre anni più tardi con una produzione visionaria e piena di campionamenti realizzati dai Dust Brothers, eliminando i loro riff hard rock, sembrò che il loro spirito di un tempo se ne fosse andato. “Hey Ladies” sfiorò la top 40, e per il primo periodo l’album vendette solamente poche centinaia di migliaia di copie, raggiungendo la quattordicesima posizione – ad oggi ancora il piazzamento più basso mai raggiunto dalla band in classifica. Ma il sound innovatore dell’album aveva creato un nuovo pubblico, lasciando il terreno fertile per il lavoro successivo, e di maggior successo, Check Your Head. Il denso stile di produzione dei Dust Brothers, troppo avanti rispetto al 1989, fu ‘scagionato’ nel 1996 dal successo di Odelay di Beck. Appena prima del decimo compleanno dell’album nel 1999, Paul’s Boutique fu premiato con il doppio disco di platino.

Weezer, ‘Pinkerton’ (1996)

I Weezer divennero delle superstar dell’alt-rock quando la loro ammiccante hit “Buddy Holly” diventò una presenza fissa di MTV, così il frontman Rivers Cuomo decise inizialmente di scrivere un’opera rock sul successo. Quel piano non funzionò granché, e Cuomo se ne andò ad Harvard a studiare composizione classica – una mossa che in gran parte diede forma alla scrittura di Pinkerton, un’opera più oscura e agitata, distinta da testi che affrontano a viso aperto le frustrazioni personali e sessuali di Cuomo durante quello che chiamò “due anni molto strani” – da come si evince dall’appunto sul disco che fece al suo fan club, in cui aggiungeva anche «volevo davvero che queste canzoni fossero un esplorazione del mio ‘lato oscuro’ – tutte le parti di me stesso cui prima d’ora pensavo con spavento e imbarazzo». All’inizio, gli ascoltatori non furono contenti di questo viaggio nell’inconscio più profondo di Cuomo. I lettori di Rolling Stone etichettarono Pinkerton come il terzo peggior album del 1996, e anche se il debutto dei Weezer aveva raggiunto il doppio disco di platino meno di un anno prima del suo rilascio, Pinkerton non fu certificato dal disco d’oro fino al 2001.