Tom Walker, il nuovo Ed Sheeran con un passato da chef | Rolling Stone Italia
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Tom Walker, il nuovo Ed Sheeran con un passato da chef

Dietro a un (apparente) successo istantaneo c'è un lavoro lungo e difficile: mille mestieri precari per pagarsi la scuola di musica, anni vissuti in un mini-appartamento con dodici coinquilini e traversate per studiare musica. Ecco chi è il ragazzo di 'Leave a light on'

Tom Walker, il nuovo Ed Sheeran con un passato da chef

Tom Walker, venticinquenne cresciuto in un paesino vicino a Manchester, è arrivato al (clamoroso) successo solo negli ultimi mesi. Il suo EP, Blessings, gli è valso il titolo di “prossimo Ed Sheeran” – già, a quanto pare è così che si misura la possibile parabola ascendente di un artista, di questi tempi. Ma dietro a un apparente successo istantaneo si cela un lunghissimo e difficile lavoro, sulla sua musica e su se stesso: i mille mestieri precari per mantenersi alla prestigiosa scuola di musica a cui si era iscritto appena maggiorenne a Londra, gli anni vissuti in un appartamento con dodici coinquilini, i periodi in cui faticava a mettere insieme i soldi per l’autobus che lo avrebbe portato in studio di registrazione…

Una bella favola che si conclude con un genio della lampada (sotto forma di manager) che decide di dargli una possibilità, e il resto è storia: Glastonbury, il Radio City Music Hall, la candidatura al prestigioso premio BBC Sound of 2018 e chissà cos’altro lo aspetta.

Foto via Facebook

Hai dichiarato che da ragazzino i tuoi voti erano pessimi e che il tuo unico vero interesse è sempre stato la musica…
Ero davvero terribile a scuola! Mi salvavo solo con informatica e musica. Forse il punto più basso l’ho toccato durante l’esame di economia, dove sono riuscito a rispondere correttamente solo al 20% delle domande. Quando avevo nove anni avevo visto suonare in tv Angus Young degli AC/DC, ed è stata la prima volta che ho capito che avrei voluto fare quello nella vita. La musica aveva senso, per me, a differenza di matematica e inglese.

A un certo punto, però, sei finito a fare lo chef.
Sì, per un periodo bello lungo: almeno quattro anni. Avevo bisogno di soldi, ma ero pessimo anche in quello, una vera frana. Onestamente non so neanche perché mi abbiano assunto, ero il peggior chef di sempre! Sono bravo a cucinare, ma solo quando sono a casa e posso prendermi il mio tempo. Nella cucina di un ristorante, con ottanta clienti che pretendono di essere serviti in fretta, è tutta un’altra cosa, molto più stressante. Anche se avessi continuato su quella strada, non penso che avrei mai fatto carriera: probabilmente sarei rimasto il tipo di cuoco che lavora nei pub di quart’ordine.

Ci hai messo un sacco ad arrivare dove sei adesso, insomma: c’è stato un momento in cui hai avuto la tentazione di mollare tutto?
Certo, anche perché l’industria musicale è un circolo molto chiuso: è difficilissimo entrare a farne parte se non conosci nessuno, e io non conoscevo nessuno. Per un periodo ho lavorato per un organizzatore di feste di lusso per ragazzini, e il mio compito era quello di assistere gli invitati nell’uso della photo boot a noleggio, una specie di cabina dove potevano travestirsi con costumi e maschere e scattarsi fototessere buffe. Un lavoro difficile, perché hai costantemente a che fare con rampolli ricchi e viziati. Ai tempi erano tre anni che provavo a fare solo musica, ma avevo deciso di prendermi una pausa, perché stavo diventando troppo monotematico e anche la cosa più bella del mondo, se fatta 24 ore su 24, dopo un po’ comincia a essere un’ossessione. Ero molto frustrato, pensavo che con le mie canzoni non avrei combinato niente, e stavo seriamente meditando di risparmiare per comprare una mia photo boot e intraprendere quella carriera. Per fortuna, però, prima che potessi farlo ho conosciuto il mio manager, che ha organizzato per me una serie di sessioni in studio con autori e professionisti della musica. Non appena ho messo un piede in quella porta, ho capito che avrei potuto farcela: fino a quel momento, però, ero davvero scoraggiato.

A proposito di sessioni in studio: da ragazzino hai dovuto imparare a suonare e registrare tutto da solo, come una vera one man band, perché nella tua zona non c’era nessun altro con cui poter fare musica. Lo fai ancora oggi?
Dipende: in studio di solito convoco anche batterista e bassista, mi piace lavorare insieme a loro alla sessione ritmica. So suonare sia chitarra che basso, ma non si può fare tutto da soli: il risultato non è altrettanto buono. Quando ho la possibilità di avere con me con musicisti straordinari, come quelli con cui collaboro, la sfrutto assolutamente.

Quando ti sei trasferito a Londra per cercare di sfondare, nella migliore tradizione del sovraffollamento nella capitale, hai vissuto in una casa con ben dodici coinquilini. Come facevi a isolarti per scrivere canzoni?
È stato un periodo fantastico, adoravo i miei coinquilini. Molti di loro erano dj o musicisti, oltretutto, quindi sentivi un suono diverso provenire dalle casse di ogni stanza: quando volevo isolarmi, mi limitavo ad alzare il volume delle mie… (ride) Insomma, una vita perfetta, quando sei molto giovane: oggi mi piacerebbe rifarlo, ma in effetti non sarei in grado di reggere quei ritmi a lungo! Era un posto da casinisti, di quelli dove alle quattro del mattino vieni svegliato dal rumore degli altri che chiacchierano in cucina e allora scendi anche tu, ti apri una birra, ti fumi una sigaretta, improvvisi due accordi alla chitarra e poi torni a dormire. È stato molto educativo, anche perché vivevo con persone di tutto il mondo: Brasile, Portogallo, Italia… Per un inglese è raro riuscire a confrontarsi con così tante culture.

Pensavo di avercela finalmente fatta, di essere in cima al mondo

Ecco, a proposito: cosa hai imparato dell’Italia, dai tuoi coinquilini?
Per un periodo ho vissuto con quattro italiani: non ho imparato a parlare la vostra lingua, però ora qualcosina capisco. Avevano un accento strano però, essendo di Torino: ora che sono a Milano mi sembra una lingua totalmente diversa! Mi hanno insegnato alcune frasi: per ordinare il caffè, per chiedere le sigarette e per dire “formaggio di dinosauro”, anche se non ho idea del perché sia importante saperlo… (ride)

Le tue canzoni sono sempre molto malinconiche, il che mi sembra stranissimo ora che abbiamo avuto modo di scambiare due parole, perché mi sembri una persona davvero allegra e solare…
Per me scrivere canzoni è come andare in terapia: se un mio amico mi fa incazzare, se ho litigato con la mia ragazza, se mi innamoro, la prima cosa che faccio è prendere la chitarra. Sono sentimenti veri, quelli che canto. Sicuramente i brani tristi sono quelli che mi riescono meglio, ma anche perché sono quelli con cui la gente riesce a identificarsi di più: anzi, forse continuo ad attenermi allo stesso mood anche perché a quanto pare alla gente piace! (ride) È un po’ l’effetto Adele: l’anno scorso, quando ho visto il suo concerto a Glastonbury, ho pianto come un disperato, ma piangere per le sue canzoni era una sensazione meravigliosa.

A proposito del fatto che i tuoi brani parlano sempre di esperienze di vita vissuta, quella di Leave a light on è una storia vera, giusto?
Non voglio scendere troppo in dettagli, perché è dedicata a un mio amico, che è l’unico che sa di essere il protagonista di quella canzone. Diciamo solo che per un attimo ha smarrito la retta via, stava affondando. Per me era davvero dura vederlo così, e in quel momento ero anche molto triste perché avevo appena perso un altro membro della mia famiglia, così ho scritto una classica canzone depressa delle mie, ma che potesse anche essere di conforto agli altri: se il mio amico e i miei familiari l’avessero sentita, avrebbero saputo che li stavo pensando e che ero lì per loro.

Anche Heartland è basata su una relazione fatta di alti e bassi, in questo caso con l’alcol…
Esatto. Hai presente quando vedi i documentari sulle rockstar in tv e ti accorgi che hanno sempre un drink in mano? Non avevo capito quanto questa situazione fosse reale fino a quando non ho cominciato il mio primo tour. Pensavo di avercela finalmente fatta, di essere in cima al mondo, e ogni notte festeggiavo fino a crollare. È stato molto divertente per un periodo, ma a un certo punto ero talmente stanco di quella vita che mi dicevo “Oh mio Dio, ho bisogno di andare a casa, vedere la mamma e bere solo acqua per un po’”. È una canzone che parla di tentazioni, soprattutto, e del riconoscere i propri limiti. Ti assicuro che è impegnativo bere così tanto ogni sera: io sono nato in Scozia, quindi da quel punto di vista ho ottimi geni, eppure ero davvero in difficoltà! Ora invece ho messo la testa a posto. Un pochino, almeno.

Angel, invece, ha una storia particolare legata alla tua famiglia: ci hai lavorato con un’orchestra, e hai voluto tuo padre accanto a te quando la registravi.
Non l’aveva mai sentita prima di quel giorno in studio, il che ha aumentato l’effetto sorpresa. Sapeva che la mia carriera stava procedendo bene, ma quando ha varcato la soglia di uno dei migliori studi di Londra e ha visto che c’era un’intera orchestra lì per me, scoppiava d’orgoglio. Ama la musica anche più di me, compra tonnellate di dischi. Ogni volta che torno a casa e voglio raccontargli dei favolosi musicisti che ho iniziato ad ascoltare mentre ero in tour scopro che li conosce già, e che ne ha altri dieci da consigliarmi!

Cosa ti ha detto quando gli hai annunciato che volevi diventare un musicista?
Mi ha sempre detto “Fai ciò che ti rende felice, ma assicurati di avere un piano B”. Tipo lo chef o l’operatore di photo boot. Però mi ha implicitamente incoraggiato a provarci, fin da ragazzino: mi ha aiutato a comprare la prima chitarra e un giorno mi ha sorpreso portandomi dell’attrezzatura per registrare, perché non voleva che corressi il rischio di dimenticare tutte le idee che mi venivano in mente mentre provavo a casa. Segretamente credo che anche lui volesse diventare un musicista, ma per lui non ha funzionato, quindi quando ho cominciato a voler seguire quella strada ne ha approfittato per rifarsi!

Finora hai pubblicato solo una manciata di singoli e l’EP, ma sei al lavoro su un album: qualche anticipazione?
Si intitolerà What a Time to Be Alive, perché è un momento storico pieno di alti e bassi: ogni volta che guardi il telegiornale scopri che c’è una nuova tragedia in agguato, ma allo stesso tempo stiamo raggiungendo dei livelli incredibili con la tecnologia e le scoperte scientifiche. Oltre alle mie solite canzoni intimiste, ci saranno anche alcune tracce più concentrate sulla politica e la società. Non so ancora quando uscirà, ma sicuramente nel 2018: per ora abbiamo registrato solo quattro canzoni, per cui devo seriamente mettermi al lavoro! (ride)

Buoni propositi per il 2018, quindi?
Essendo cresciuto vicino a Manchester, il mio obbiettivo ovviamente è quello di arrivare a suonare alla Manchester News Arena, davanti a decine di migliaia di persone. Oppure sul Pyramid Stage di Glastonbury, ma nel 2018 non ci sarà perché è nel suo anno di pausa, perciò per quello dovrò aspettare.

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