Phra Crookers è un treno in corsa, in barba a chi gli vuole male | Rolling Stone Italia
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Phra Crookers è un treno in corsa,
in barba a chi gli vuole male

Dopo lo scioglimento del duo, Phra ha continuato la strada da solo, tra etichette in proprio, e album solisti. Leggi la nostra intervista

Francesco Barbaglia, aka Crookers.

Francesco Barbaglia, aka Crookers.

Fino a un paio di anni fa Crookers era il nome di un duo che teneva alta, anzi altissima, la bandiera della dance di casa nostra: milioni di copie vendute con il solo remix di Day’n’Nite di Kid Cudi, un primo album che riuniva il gotha del pop mondiale (da Will.i.am a Pitbull, da Kelis ai Major Lazer), un secondo lavoro di minor successo commerciale ma universalmente apprezzato dalla critica.

Poi l’annuncio a sorpresa: Phra e Bot decidono di dividersi ed è il solo Phra a raccogliere l’eredità del gruppo, portandone avanti il nome. Una separazione non proprio amichevole – se per nominare il tuo ex socio durante un’intervista l’appellativo che usi è “l’altro”, sorge il dubbio che non sia finita propriamente a tarallucci e vino – che comunque non ha arrestato l’attività di quello che ormai è un brand di successo del made in Italy musicale. Nella primavera del 2015 Phra ha pubblicato un nuovo album firmato Crookers, Sixteen Chapel: la direzione sembra essere del tutto diversa da quella intrapresa precedentemente. Il pop e la house da classifica sono ormai acqua passata, così come gli ospiti di richiamo.

Questo è di fatto il tuo primo album solista…
Non proprio. Io e l’altro non eravamo mai in studio insieme: lui viveva a Londra, io in Svizzera, fondamentalmente ci confrontavamo via mail. Gran parte del lavoro lo facevo comunque da solo, non mi sono mai sentito parte di una band.

I rapporti tra di voi adesso come sono, quindi?
Non ci sono rapporti, semplicemente. In pratica non c’erano neanche prima. La decisone di dividerci l’ha presa lui, l’altro, e me l’ha comunicata sempre via mail. Vivo la cosa con molta serenità, comunque.

Il titolo del disco è un riferimento alla Cappella Sistina, giusto?
Sì, ma non in senso pretenzioso. Tutto nasce da un errore di MFN Exquire, uno dei rapper che ospito nell’album, che nella sua strofa ha detto “Sixteen Chapel” anziché “Sistine chapel”: uno sbaglio comune tra gli americani. Comunque tu la chiami, però, il valore di quel luogo non cambia. Un po’ come la mia musica, che è piena di errori tecnici e formali che non influenzano il risultato finale.

Che tipo di errori?
Mi reputo un produttore molto ignorante, nella media. Non ho un talento fuori dal comune, ma ho imparato a trasformare i difetti in punti di forza: non sono perfetto, ed è questo che piace.

Eppure questo non è un album orecchiabile o concepito per piacere a tutti…
No. Il mio famoso remix di Kid Cudi ha inaspettatamente venduto 17 milioni di copie: l’avevo realizzato in fretta e furia, nella mia cameretta, ed è rimasto nel cassetto per due anni. Questo mi ha insegnato che quando azzecchi la formula giusta, la azzecchi quasi per caso. Ed è una magia che funziona solo se hai zero aspettative.

Visti i precedenti successi avresti potuto collaborare con chiunque, invece hai scelto nomi poco conosciuti come Dilligas, STS o Antwon. Come mai?
Ho già dato. Tons of friends era un album pieno di superstar, ma trattare con i loro management è stato un lavoro titanico e anche un po’ demotivante. Finisci per impazzire e anche in studio non sempre ti diverti, perché gli artisti di un certo calibro non amano mettersi in gioco. E alla fine tutti parlano del tuo disco per via degli ospiti e non del tuo lavoro. Diventa l’album con, non l’album di.

Francesco Barbaglia a.k.a. Crookers

Francesco Barbaglia a.k.a. Crookers

A proposito di superstar, gira questa leggenda: qualche anno fa i Crookers vengono convocati in studio da (un gigante dell’hip hop americano che non nominiamo perché se ci querela sono c***i amari) per una collaborazione. Al termine della session vi congeda dicendo che non è soddisfatto del risultato, ma quando poi esce il suo album…
… Ci troviamo dentro le nostre produzioni, accreditate a lui. È tutto vero! Era il 2008 ed eravamo molto ingenui: fino ad allora la house e il pop non avevano niente a che spartire, e quindi nessuno ci cagava di striscio. A un certo punto, però, qualcosa è cambiato. Artisti da milioni di copie, tra cui il tizio in questione, ci supplicavano di collaborare, e ovviamente noi accettavamo senza sapere cosa ci aspettava. Quella di approfittarsi dei producer emergenti è una pratica molto frequente: loro sono dei giganti, tu sei un signor nessuno, non ci perdono nulla.

È dura farsi prendere sul serio a certi livelli?
Bisogna abituarsi alla loro mentalità. Un esempio: ogni anno la Roc Nation, l’etichetta di Jay-Z, organizza un bootcamp a Los Angeles. In sostanza riuniscono in studio i migliori produttori e songwriter del mondo e ogni giorno ti assegnano un compito diverso: scrivere per Rihanna, per Rita Ora e via dicendo. Hai un paio d’ore di tempo per realizzare una canzone adatta a quell’artista. La prima volta che mi hanno invitato ero in ciabatte, pantaloncini e canottiera, perché in studio voglio stare comodo. Gli altri, invece, erano vestiti tutti uguali: sneakers, pantaloni neri, maglia fighetta, catena d’oro e Rolex… Mi guardavano come un alieno, nessuno mi dava retta. Il giorno dopo ho capito l’antifona e mi sono conciato anch’io come loro!

Look a parte, è strano pensare che esistano vere e proprie fabbriche sforna-hit come questa.
La maggior parte del materiale che viene prodotto lì è usato come test e non viene mai sviluppato, anche perché sanno perfettamente che non si può creare una hit a tavolino. Però sono situazioni che ti danno modo di conoscere un sacco di gente e di capire come funzionano i meccanismi della musica pop, dove le stesse 20 persone scrivono il 90% delle canzoni in classifica.

A proposito di musica popolare, il primo singolo di Sixteen Chapel si intitola Ghetto Guetta. David Guetta ha commentato in qualche modo?
L’avevo avvertito via mail, mi ha fatto tanti auguri: non è uno permaloso. La mia non voleva essere una presa per il culo, ma una rielaborazione in chiave tamarra dell’EDM più commerciale. Rispetto molto David: ha fatto la gavetta ed è ancora al top nonostante la concorrenza. Quel tipo di EDM non mi piace, ma preferisco che in vetta ci sia lui, piuttosto che un ragazzino che a pochi mesi dall’esordio ha già il suo jet privato.

Tu, invece, sei permaloso? Ad esempio come hai reagito quando hai letto la recensione di Pitchfork, non proprio benevola nei confronti del disco?
Premessa: quella recensione l’ha scritta un aspirante producer di mezza età che fa musica ambient, e ho detto tutto. In ogni caso sono contento che Pitchfork abbia parlato del mio disco: non aveva mai scritto nulla su di me prima, probabilmente mi considerava troppo mainstream.

Curiosità: hai militato a lungo nella scena hip hop italiana, ma hai mollato all’inizio degli anni ’00, ben prima che esplodesse il fenomeno…
La nostra generazione se l’è vissuta malissimo: se facevi certe cose eri considerato un sucker. Quando dicevo che mi piaceva la house, molti mi guardavano come un traditore. Però grazie all’hip hop ho conosciuto alcuni tra i miei migliori amici; mi sentivo parte di qualcosa di speciale e la musica era una figata. Quello di oggi non mi fa impazzire, a parte alcune eccezioni tipo Guè Pequeno, e non tornerei a farlo, anche perché non sono granché a rappare. Tutt’al più registro qualche strofa per gioco sulle produzioni di Lucky Beard.

A proposito, cos’è Lucky Beard?
È un collettivo in cui incanaliamo i suoni più pazzi e sperimentali, quelli che non potrei mai usare per Crookers. Insieme al mio amico Stabber abbiamo raccolto un sacco di ragazzi emergenti e con un gran cervello, soprattutto italiani, per combattere l’esterofilia tipica dei club di casa nostra. All’inizio l’idea era di non fare promozione e di diffondere le nostre cose solo tramite dj amici, ma poi la cosa ci è sfuggita un po’ di mano.

In che senso?
Due anni fa abbiamo pubblicato la prima release di Anubi, ai tempi sconosciuto ai più. Ci arriva la mail di un tizio che sostiene di essere Thom Yorke: dice che gli piace un sacco, e chiede se è possibile ricevere le altre nostre uscite. Pensando che fosse un mitomane, gli rispondiamo inoltrandogli semplicemente un link con i nostri pezzi in free download. Dopo tre settimane ci scrive ancora: “Bravi, per ricambiare vi mando il disco che ho appena registrato con la mia band”. Era l’album dei Radiohead, otto mesi prima che uscisse nei negozi! Da lì abbiamo capito che forse le potenzialità del progetto erano maggiori di quelle che immaginavamo…

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