Intervista a Luis Fonsi: «Vi racconto la mia ‘Despacito’» | Rolling Stone Italia
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Luis Fonsi: «Vi racconto la mia ‘Despacito’»

Fino a qualche settimane fa in Europa era un semisconosciuto, anche se in America Latina era già una superstar. Ora ha una hit mondiale da quasi un miliardo di visualizzazioni

Nessuno o quasi, in Europa, sapeva chi fosse Luis Fonsi fino a qualche settimana fa. Nonostante in America, soprattutto in America Latina, sia già una superstar con quasi vent’anni di carriera all’attivo, svariati premi prestigiosi, molti ruoli da attore e una valanga di hit in classifica, nel vecchio continente non aveva mai sfondato. Certo, le poche volte che ha avuto occasione di suonare dalle nostre parti sono state memorabili: ha cantato in occasione della consegna del Nobel per la Pace a Obama («Durante la mia performance la principessa si è alzata in piedi e ha ballato, non lo aveva mai fatto prima, in Svezia tutti i giornali ne parlavano!») e per papa Giovanni Paolo II, davanti a centinaia di migliaia di persone.

Ma nulla di tutto questo è paragonabile al terremoto che ha generato la sua super hit Despacito, con la partecipazione di Daddy Yankee: ad oggi 830 milioni di views in tutto il mondo su YouTube – raggiunte alla velocità della luce, meglio di lui hanno fatto solo Psy e Adele – e n°1 in classifica un po’ ovunque, ivi compresa l’Italia, dove risulta in testa per vendite fisiche, digitali, streaming, Shazam e chi più ne ha, più ne metta. Nato e cresciuto a Porto Rico, a 10 anni si trasferisce con la famiglia a Orlando, in Florida, dove esordisce nel 1998 con l’album Comenzaré. E quasi vent’anni dopo, finalmente, è pronto per conquistare questa sponda dell’Atlantico. Lo abbiamo incontrato a Milano.

Perché, secondo te, Despacito ha avuto così tanto successo?
Molti me lo chiedono, ma la vera risposta è che non lo so! (ride) È stata una bellissima sorpresa anche per me scoprire che andava così bene anche al di fuori dell’America Latina. Nessuno di noi ha la sfera di cristallo, è impossibile sapere se le canzoni che pubblichiamo diventeranno o no delle hit. Ma è anche il bello del music business: a volte produci una canzone perfetta per sfondare e invece non arrivi neanche in classifica, e altre volte canzoni che scrivi in cinque minuti esplodono senza preavviso. Quello che mi piace di Despacito è che è molto piccante e sensuale, ma non è volgare. Anzi, l’ho scritta con una donna proprio per essere sicuro che non mancasse di rispetto al genere femminile in nessun passaggio. E la collaborazione con Daddy Yankee è stata il perfetto tocco finale, ha aggiunto molto più ritmo all’insieme. Faccio il cantante da nove anni e quello che uscirà quest’anno sarà il mio nono album. La maggior parte delle mie canzoni precedenti erano più melodiche e romantiche, ma quando ho iniziato a scrivere per questo nuovo disco volevo fare qualcosa di più ballabile: penso che oggi la gente, più di ogni altra cosa, abbia bisogno di ballare. Contrariamente al solito, quindi, ho inaugurato l’album con un primo singolo con influenze dance, reggaeton e urban, anziché con una ballad.

Quando dici che la gente ha più che mai bisogno di ballare ti riferisci al clima politico pesante di quest’ultimo periodo?
No, non direi. Parlavo proprio in senso letterale: la gente vuole musica ritmata oggi, non ballad o canzoni tristi. Per me le ballad saranno sempre importanti, ma le nuove generazioni vogliono ballare, che siano in macchina con l’autoradio accesa o in un club. Da persona che scrive canzoni, ho deciso che oggi più che mai era bene prestare attenzione agli aspetti ritmici del mio album, pur restando un musicista romantico. Mi piace cambiare un po’ a ogni nuovo lavoro, comunque: se guardi ai grandi della musica, da Michael Jackson a Madonna, sono sempre in grado di rinnovarsi, di crescere e di sorprendere il pubblico. Non bisogna avere paura di provare cose nuove.

A proposito cosa (e soprattutto chi) ci sarà nel tuo prossimo album?
Sul cosa vi ho già dato qualche indizio, mentre sul chi preferisco rimanere misterioso: sono superstizioso, non svelo mai le persone con cui collaboro fino a quando non sono al 100% sicuro di aver portato davvero a casa quel featuring. Anche perché è ancora tutto in divenire: proprio oggi, ad esempio, da qualche parte nel mondo c’è una persona che sta registrando una nuova strofa per me… Finché il disco non è chiuso, mixato e masterizzato, non annuncerò niente! Posso dirti però che ci saranno tre ospiti, probabilmente, due dei quali vengono dalla scena urban. Amo molto lavorare con altri musicisti: negli ultimi anni ho cantato davvero con chiunque, da Juan Gabriel, che è scomparso di recente ed era probabilmente il più importante cantante e autore latino di tutti i tempi, ad Afrojack. Non mi fa paura confrontarmi con altri generi.

Qui in Europa la gente percepisce la musica latina come un genere unico e compatto, quando in realtà è una galassia di generi diversi che in comune hanno solo l’origine…
Non solo in Europa, ti assicuro che anche negli Usa è la stessa cosa! Molta gente non capisce lo spagnolo, non ascolta la musica latina e non capisce le sue sfumature: non sanno che c’è la salsa, il reggaeton, la cumbia, le ballate e molto altro ancora. È difficile spiegare esattamente cosa faccio io perché mescolo un po’ di tutto: c’è un lato molto romantico nella mia musica, ma non sono mai stato un cantante e autore che fa solo quello. Anzi, a dire il vero la mia musica non è mai stata molto latina, nel senso più tradizionale del termine: non uso le trombe e gli altri fiati, e non uso neanche le congas. Di solito quando pensi alla musica latina pensi a roba tipo “Come on shake your body baby do that conga”… (si mette a cantare Conga di Gloria Estefan, ndr) Ecco, io non faccio quello. Ora più che mai. Questo, probabilmente, è l’album più personale che abbia mai fatto.

Le sonorità e i ritmi latin e tropical vanno fortissimo ultimamente, anche in produzioni pop, house o addirittura hip hop come l’ultimo album/playlist di Drake. Come mai, secondo te?
C’è anche una riscoperta degli strumenti tradizionali: in Despacito, ad esempio, abbiamo utilizzato una chitarra tradizionale portoricana chiamata cuatro, che di solito si usa nella musica popolare dell’isola. Magari la gente non sa neanche cosa sia e che forma abbia, però ne apprezza il sound, si mescola bene ai suoni programmati o ai synth. Credo che sia soprattutto il suono della musica latina ad attirare, in questo momento.

Restando in tema di Porto Rico, in questo periodo c’è un grande dibattito in corso tra chi vuole che rimanga annesso agli Stati Uniti (è un cosiddetto “territorio non incorporato” degli Usa, quindi i portoricani sono cittadini americani), chi vorrebbe che diventasse il cinquantunesimo stato Usa e chi vorrebbe invece l’indipendenza totale: molti tuoi concittadini illustri, come l’autore del musical Hamilton Lin-Manuel Miranda, hanno preso posizione sulla questione. Tu cosa ne pensi?
È un argomento molto difficile e ho un po’ paura a rispondere, perché c’è molta divisione all’interno dell’isola: siamo davvero spaccati a metà su questo tema. Ci sono cresciuto, è la mia patria, sono fiero di essere di Porto Rico e continuo a documentarmi su quello che succede lì: non so dirti cosa sia meglio, però, perché non credo ci sia una risposta giusta e definitiva. Spero semplicemente che il paese continui a prosperare come ha fatto finora, e diventi sempre più florido. (pausa) Insomma, sono riuscito a risponderti senza dirti niente, in realtà. Mi sa che ho un futuro in politica! (Scoppia a ridere, ndr)