Kendrick Lamar, il Re umile | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

Kendrick Lamar, il Re umile

Il rapper migliore di tutti sa benissimo da dove viene, e ancora meglio dove sta andando

Foto: Getty Images

Kendrick Lamar è parecchio indaffarato in questo periodo, ma non lo diresti. Nel backstage del suo show, sold-out, a Duluth, Georgia, irradia livelli soprannaturali di serenità, mentre se ne sta seduto su un divano del camerino. Indossa una felpa color pesca, delle Nike bianche e in mano ha un bicchiere di plastica con un succo verde, «un po’ di cavolo, mela, spinaci. Roba che fa bene». L’intruglio deve funzionare: ha prodotto un singolo finito in vetta a tutte le classifiche, un video complicatissimo girato con Rihanna e un tour di enorme successo.

Succedono cose strane in questo 2017, molte terribili, ma almeno un’anomalia positiva c’è. Uno dei giovani artisti più innovativi ed eccitanti – semplicemente, il miglior rapper della sua generazione – è diventato in qualche modo anche il più importante. E Lamar ci è arrivato senza compromessi, semplicemente sfornando tre album in fila che sono già dei classici. Il suo debutto su una major, good kid m.A.A.d. city, del 2012, era un’autobiografia vivida, una decostruzione virtuosistica del gangsta rap incentrata sulle storie della sua infanzia a Compton, dove molti suoi amici erano coinvolti nelle gang e la polizia era una minaccia costante. To Pimp a Butterfly, del 2015, era una meditazione intensa, cerebrale e splendente sulla questione razziale che ha dato vita a una delle canzoni più importanti del decennio, l’inno Black Lives Matter Alright. Con DAMN., uscito quest’anno, ha cambiato passo: è un disco intelligente e concettuale ma più rigoroso, accattivante e accessibile.

Lamar, 30 anni, è felice dei suoi recenti successi commerciali, ma dice che non è quello il punto: «Se riuscissi a far sentire una persona – o a 10 milioni di persone – un certo tipo di entusiasmo nella mia musica, quello sarebbe il punto».

Parli dei sogni di un teenager, di quando vorrebbero “livin’ life like rappers do” (in Money Trees, ndt), ma la tua vita è abbastanza tranquilla. Quali sono i tuoi vizi di oggi?
Il mio vizio più grande è essere dipendente da quello che faccio. È diventato un vizio quando ho iniziato a escludere le persone che si prendono cura di me, perché sono troppo impegnato a portare in fondo il mio compito. Stare sul palco, sapere che stai cambiando la vita ad alcune persone, è un impegno molto alto. A volte, quando vuoi far arrivare a uno sconosciuto qualcosa che ti sta a cuore, ti dimentichi di chi sono le persone più vicine a te. Ecco, questo è un vizio.

Pensi che dovresti divertirti di più?
Tutti si divertono in modo diverso. Io non mi diverto bevendo, bevo solo ogni tanto. Mi piace portare con me la gente del mio quartiere, magari qualcuno che è appena uscito di prigione dopo cinque anni, e guardare le loro facce quando arrivano a New York, o quando vengono con me all’estero. Cazzo, quello è divertente per me! Vedi cosa provano attraverso i loro occhi, vedi come si illuminano.

La gente ti tratta come una divinità o un santone. Dev’essere strano per te.
Le persone più vicine a me mi conoscono davvero. Conoscono tutti i lati di me.

Ma hai qualcosa che ricorda un santone, secondo te?
Penso che potrebbe essere legato a quando ero piccolo. Ero sempre perso nei miei pensieri. Ho ancora questa caratteristica. Medito di continuo sul presente o sul futuro.

Da piccolo mi comportavo da uomo. Se mi facevo male, nessuno si aspettava che potessi piangere. Mi ha preparato alla responsabilità che ho ora nei confronti dei miei fan

Ti sentivi un bambino speciale?
Da quello che mi dice la mia famiglia, mi comportavo da uomo – ecco perché mi chiamavano “Man man”. Ha messo uno stigma sull’idea che potessi reagire come un bambino: se mi facevo male, non si aspettavano che potessi piangere. Questa cosa mi ha preparato alla responsabilità che ora ho nei confronti dei miei fan. Ho finito col farmi la pelle dura, anche con le critiche. La mia prima volta in studio, il boss della Top Dawg mi ha detto, «Amico, questa roba fa schifo». Altri artisti non avrebbero retto un giudizio del genere. Io sono tornato nel booth per spingere di più.

Da dove è arrivata questa maturità?
È arrivata perché ero circondato da gli di puttana più grandi di me, amico. Avevo sette anni e giocavo a football con i 14enni. Tutti quelli con cui uscivano i miei cugini più grandi erano quelli con cui volevo uscire anche io. Sono sempre stato il più piccolo (ride). Tutti erano sempre più grandi e più vecchi di me.

Hai detto che tu e pochi altri amici avevate un padre, e che potrebbe averti salvato. Come?
Mi ha insegnato a gestire le mie (si ferma, nda)… emozioni. Meglio rispetto a molti altri miei amici. Quando vedi dei bambini fare cose che il resto del mondo definisce pericolose, o una minaccia, vuol dire che non sanno come gestire le proprie emozioni. Se fai qualcosa di sbagliato, tuo padre ti dice “Cosa cazzo stai facendo?”. Ti mette a posto, ti fa sentire piccolo così. Per me è stato un privilegio. Le mamme e le nonne dei miei amici hanno insegnato loro l’amore e l’affetto, ma non queste cose.

Cosa ti fa perdere la pazienza?
Le persone che mi circondano e che non hanno la stessa voglia di fare che ho io. Succhiano l’energia. Non posso averle attorno a me. La vita è troppo breve.

C’è una dose di trauma implicita nelle tue storie. Quanto ci hai avuto a che fare da adulto?
Beh, sai, c’è anche una buona dose di divertimento e di umorismo, che a volte, riesce a contrastare le cose assurde che ho visto. Tutte le stronzate divertenti che ho fatto con i miei zii e mio padre. Anche mia mamma è incredibile, divertente e affettuosa. Tutto questo ha risposto alla merda che ho passato, mi ha aiutato a comprendere le tragedie, senza staccarmi del tutto.

Cosa ti fa ridere oggi?
Cazzo, tutto mi fa ridere. Tutto. Questo tizio qui? (Indica il suo videomaker, nda) Ha una pettinatura sotto il suo cappello che mi fa spaccare ogni volta che se lo toglie. È terribile! (Ride) Dico sempre che i migliori intrattenitori devono avere uno humor malvagio, dark. Devono sapere trasformare in risate il dolore.

Non hai parlato molto di Trump. Perché?
Voglio dire, sarebbe come sparare sulla croce rossa. Sappiamo già che tipo di uomo sia. Vogliamo continuare a parlarne o vogliamo fare qualcosa? Arrivi al punto in cui sei stanco di parlarne. Parlare di qualcosa o qualcuno che è completamente ridicolo ti prosciuga, ti toglie l’energia. Quindi sia nell’album che nella vita mi impegno a fare qualcosa per la mia comunità. Nelle canzoni non parlo di quello che succede nel mondo o delle situazioni che ci circondano. Parlo di noi stessi, è importante riflettere prima su di sé. È qui che inizia il cambiamento.

Nella tua finta intervista con Tupac su Mortal Man, gli chiedi come sia riuscito a mantenersi stabile di fronte al successo. Quale sarebbe la tua risposta?
Le cose potrebbero andare peggio. La vedo così. Ho ancora parte della famiglia che non se la passa bene, e devo prendermi cura di loro. Mettila così: ho questo stile di vita da quanto, cinque anni? Dal 2012. Prima di allora ho passato due decenni interi senza sapere cosa mi sarebbe successo il giorno dopo. Lo porto ancora dentro di me. Così più avanti potrò tirar fuori il meglio di me nella mia carriera.

In ELEMENT. fai una distinzione tra “black artists and wack artists” (artisti neri e artisti orribili, ndt). Come lo definiresti, un wack artist?
Amo questa domanda. Come definirei un wack artist? È uno che usa la musica che fanno altre persone per sentirsi approvato. Parliamo di gente che ha paura di far sentire la propria voce, e segue il successo di qualcun altro, lo stile di qualcun altro, ma scappa dal proprio. È questo che indebolisce la scena. Non tutti riescono a essere Kendrick Lamar. Non dico di rappare come me. Ma di essere te stesso. Semplicemente. Vedo un sacco di bravi artisti mollare perché la gente è concentrata su quanti numeri fanno, e questo mette un freno alla creatività. E fa male all’ascoltatore, perché alla fine dei conti, non lo facciamo per noi. È per la gente che va in macchina al mattino per iniziare la sua giornata di lavoro, ma non ne avrebbe voglia.

Cosa pensi di un rapper che si rivolge a un ghostwriter? Hai scritto anche dei versi per Dr. Dre.
Dipende da come vuoi identificare te stesso. Io mi considero il miglior rapper. Non potrei mai definirmi il migliore se avessi un ghostwriter. Se tu dici di essere un tipo di artista diverso e non ti interessa realmente essere il miglior rapper, allora non c’è problema. Fai dell’ottima musica. Ma il titolo di “migliore” non può essere tuo.

Stare sul palco, sapere che stai cambiando la vita ad alcune persone, è un impegno molto importante

Se saltasse fuori che tu hai un ghostwriter, la gente vorrebbe incontrarlo.
(Ride) Hai ragione.

Ogni volta che tu apri la bocca per una rima, devi fare in modo che sia all’altezza della tua reputazione. Devi confrontarti con te stesso. Come affronti questa sfida?
È quello che mi fa andare avanti. Posso migliorarmi ancora? Posso fare una rima migliore dell’ultima? Questa è la sfida. Se non ci fosse questa voglia, mi sarei fermato dopo good kid, dopo il mio primo platino. Ma poi vedi gente come Jay-Z (ride). È un miliardario. Guarda anche Dr. Dre. Jay continua a scrivere, perché è sempre una sfida, devi verificare che tu sia non solo parte della cultura, ma che tu possa creare un processo creativo organico, che ti possa sempre confrontare con te stesso.

Hai mai paura di finire le parole?
Nah, amico. Non ci penso neanche. Non ora. Assolutamente no.

Come ci è finito Bono in XXX.?
Avevamo un pezzo che avremmo dovuto fare insieme. Me l’ha mandato, io ho aggiunto delle idee ma non sapevamo come sarebbe uscito. Poi è successo che stavo lavorando al disco, quindi gli ho chiesto, “Mi concederesti l’onore di usare questa traccia, unire quest’idea che vorrei aggiungere, perché sento che ci andrebbe un certo tipo di 808 (una drum machine vintage, ndr), una certa batteria…”. E lui è stato molto aperto.

Quindi hai praticamente cannibalizzato una canzone esistente. Lo fai, ogni tanto.
Posso farlo. Deve avere un senso. Ci sono tanti pezzi in giro, tante collaborazioni che non usciranno mai, perché non suonano bene, non importa quanto i nomi coinvolti siano importanti. Ma Bono è saggio e conosce molto bene i meccanismi musicali e quelli della vita. Quando sono al telefono con lui, potrei parlare per ore. Quello che fa in giro per il mondo, come aiuta le persone, è di grande ispirazione.

Il tuo viaggio in Africa è stato un grande momento per te. Perché?
Ho sentito di appartenere a quei luoghi. Mi ha dato una prospettiva totalmente diversa rispetto a dove provengo. Di quello che facciamo a Compton e di come il mondo sia tanto più grande rispetto a Compton. Me lo sono portato con me. Quando abbiamo preso l’aereo, abbiamo pensato tutti la stessa cosa, “Torniamo in città. Ma questa è la nostra casa”.

Sei stato nella prigione di Mandela, giusto?
Ci siamo seduti nella sua cella. Abbiamo visto le pietre che i detenuti dovevano dissotterrare ogni giorno. Era folle. Potevi sentire i loro spiriti in quel luogo, che ti invitavano a portare nella tua comunità parte di quella storia. È proprio quello che ho fatto.

Cosa hai pensato quando eri in quella cella?
Ho pensato a quanto fosse forte. Se sei in grado di mandare un messaggio e smuovere la coscienza sociale da lì, vuol dire che sei un uomo davvero forte.

Come hai dato vita a HUMBLE.?
È partito tutto dal beat, in realtà. Mike Will Made-It (il producer, ndt) me l’ha mandato e tutto quello a cui pensavo era The Symphony e i primi momenti dell’hip hop, la sua complessa semplicità, ma con qualcuno che fa qualcosa, che prende posizioni. È un beat che parla della mia generazione. La prima cosa che ho pensato è stato “Be humble”.

A chi parli nel pezzo? A te stesso?
Assolutamente sì. È il mio ego. Quando guardi i titoli delle canzoni di questo disco, sono tutte mie emozioni, espressioni di me stesso. Ecco perché ho fatto una canzone come quella. Dove sono solo io che mi guardo allo specchio.

Hai fatto un album che è arrivato in classifica. In qualche modo, sei un artista pop.
È complicato perché puoi avere un disco in classifica, ma allo stesso tempo devi mantenere la tua integrità. Non in molti riescono a farlo (ride). Chiamalo come vuoi. Ma finché l’artista rimane fedele alla cultura e all’arte dell’hip hop, non c’è problema.

LOVE. è la cosa più pop che tu abbia mai fatto. Ma devi metterti un limite, un confine…
Lo chiamiamo “ear candy”, piacevole per l’orecchio. Ci sono cose “ear candy” e poi ci sono cose semplicemente sdolcinate. Devi avere un orecchio incredibile e un team incredibile per riconoscerlo, per capire la differenza. Ci vogliono anni di lavoro su delle schifezze (Ride), per capire cosa funziona per te e capire quando puoi fare qualcosa di diverso dal solito, ma che comunque suona bene e ti fa restare te stesso.

Ti è capitato di registrare pezzi che potevano essere delle hit, ma suonavano sdolcinate, quindi hai deciso di non pubblicare?
Certo. Ho fatto dei freestyle che potevano essere dei possibili successi ma, in nome del mio brand e di dove voglio andare, a volte devo ragionare sulla lunga distanza, piuttosto di accontentarmi di quello che mi trovo davanti.

Ho trovato uno stile quando ho iniziato a utilizzare il mio nome e a raccontare la mia storia. E’ stato più facile trovare la mia voce, perché nessuno può raccontarla come me

Hai scartato anche canzoni perché non erano coerenti con il disco?
Molte. Mi interessa tutto l’insieme, non solo il singolo brano. Arrivo da quegli anni. Non riesco a scrollarmelo di dosso, non mi interessa quanto crescerà lo streaming. Con lo streaming ora puoi anche avere soltanto delle belle canzoni, solo quelle.

Volevi realizzare un disco più accessibile di Butterfiy?
L’idea iniziale era di fare un ibrido dei miei primi due dischi commerciali. Quello era il nostro focus, lavorare sui suoni, sui testi, sulle melodie, ed è uscito esattamente come l’avevo in testa… Come fare le cose al meglio è la sfida vera. Se non avessi lavorato bene, sarebbe stato un grande rischio passare da To Pimp a Butterfly a DAMN.. Quindi ho dovuto essere molto attento riguardo i temi da toccare…

Quando hai fatto il remix di Bad Blood di Taylor Swift, sapevi che stavi entrando in una faida con Katy Perry?
(Ride) No, non sapevo niente. È una bella domanda. Rende il tutto ancora più divertente ora, ma non è una cosa di cui mi sono preoccupato. E so che devo starne lontano (Ride).

Cosa hai imparato lavorando con Beyoncé su Lemonade?
Quanto puoi essere esigente con la tua stessa musica. È una perfezionista. Pensa alla sua performance ai BET. È stata molto puntigliosa, la luce, i movimenti di camera, la transizione tra la musica e la parte di danza. Ha confermato cose di lei che sapevo già.

I tuoi video sono sempre più ambiziosi. Ti hanno mai chiesto di fare l’attore?
Spesso. Ma devo essere coinvolto al 110%. È un talento, qualcosa che le persone perfezionano negli anni. E se io dovessi iniziare solo perché sono Kendrick Lamar, sarebbe soltanto una pacca sulla spalla che non vorrei prendere. Aspetterò fino a quando non potrò prendermi del tempo e studiare. E al momento sono più attratto dall’idea di fare il regista.

Nella musica, sembri pensare come un producer, anche se non ti definisci così.
Ti dico questa cosa: non puoi fare questo tipo di album soltanto usando i beat che ti mandano i producer. Devi essere coinvolto con loro. Devi studiare ed essere presente in ogni fessura dei pezzi. Io ci sono sempre.

Ma uno come Future praticamente rappa solo sui beat che gli vengono forniti. Siete molto diversi, è stato interessante sentirti sul remix della sua Mask Off.
È un genio. L’ho visto in studio. Arriva alle melodie così (schiocca le dita, nda). Devi parlare un certo tipo di linguaggio e aver studiato molto la musica – come l’ho studiata io – per fare quello che fa lui. Sono certo che è cresciuto con un sacco di R&B. È di un altro livello.

Qual è la tua canzone preferita di Drake?
(Ride) Me ne piacciono tante. Non riesco a sceglierne una… Ne ha un sacco.

Lo preferisci quando canta o quando rappa?
Entrambi.

Nei tuoi primi mixtape, quando avevi 16 anni, ci sono dei momenti in cui sembri Jay-Z.
Certo. Sono ancora un suo fan. È una pagina che ho rubato dai suoi dischi, saper scrivere un testo come una conversazione e far sembrare che io sia lì di fianco a parlarti.

Quando hai trovato il tuo stile?
Penso che sia stato il giorno in cui ho iniziato a usare il mio nome, Kendrick Lamar. E ho iniziato a raccontare la mia storia. Quando l’ho fatto, è stato più facile per me trovare la mia voce, perché nessuno può raccontare la mia storia come faccio io.

Nel 2010 hai registrato The Heart Pt. 2, un lavoro molto onesto, a livello di emozioni. Come ci hai lavorato?
Ricordo che mi ero detto, “Voglio mettere in mostra un flusso di emozioni su un album. Non mi interessa quanto saranno lunghe le barre, ma la gente deve letteralmente sentire quello che provo”. Se non ci fossi riuscito, non ci sarebbe stato motivo di mettere semplicemente le parole nel punto giusto. Quindi quella sensazione di soffocamento verso la fine, quando sto per strozzarmi e perdo la voce, ecco, volevo ottenere quello.

Entri in uno stato di trance in studio. Ti spaventi di te stesso?
La parte divertente è che mi spavento perché viaggio molto a livello emozionale e mi avvicino a essere un robot delle emozioni. A un certo punto vuoi continuare a fare prove dopo prove. Ed è quando ti isoli davvero che entri in contatto con il tuo pubblico. Riescono a sentirlo da quello che fai in studio, come Eminem in The Way I Am, Jay-Z in Song Cry o Tupac in Dear Mama. Sicuramente quelle storie e quelle idee hanno funzionato per loro.

Molte persone pensano che i virtuosismi nei testi non siano più un valore. Sei d’accordo?
Ho lasciato il segno nel momento giusto. Nel 2011 e nel 2012 c’è stata una finestra di tempo in cui i fan volevano sentire della poetica. Probabilmente puoi ancora dire la tua puntando su quello. Ma potresti non essere più rispettato, perché i tempi sono cambiati.

È stato André 3000 il primo che ti ha fatto capire che i rapper possono cantare?
Per la mia generazione, è sicuramente stato André 3000. Un giorno era in tv a rappare, poi la settimana dopo aveva una canzone come Prototype. Era sconvolgente, capisci?

Hai delle canzoni inedite dove canti?
Certo, scrivo molte melodie. Ultimamente lo uso come esercizio per i miei album rap. Può saltar fuori qualcosa all’improvviso, un hook come quello di ELEMENT.. Può regalarti un verso cantato su un pezzo di Travis Scott, usando un ghetto falsetto. È come lo chiamo io (Ride), quando flirto con l’idea di poter arrivare lassù.

Il tuo falsetto suona un po’ come quello di Curtis Mayfoeld. Sei un fan?
Assolutamente sì. Era il preferito di mio padre. Di mia madre, in realtà.

Tuo cugino Carl è un membro degli Hebrew Israelites, che credono che gli afroamericani siano i veri discendenti degli israeliti biblici. Carl appare su FEAR. e tu ti definisci un israelita nell’album. Hai abbracciato questa teoria o stai giocando con l’idea?
Tutto quello che dico nel disco viene dalla sua prospettiva. È sempre stata la mia cosa. Ascoltare sempre le storie delle persone e il loro passato. Magari non è come la mia, magari non è come la tua. È prendere la sua prospettiva sul mondo e sulla vita e metterla in un luogo in cui le persone possano ascoltarla e da lì fare le loro considerazioni, che siano d’accordo o meno. Penso che la musica serva a questo. È un portavoce.

Quindi, qual è la tua opinione riguardo l’idea di tuo cugino Carl, che i neri siano perseguitati da Dio come nel Deuteronomio?
È vero. Ci sono diversi modi di interpretarlo, ma è assolutamente vero, se parli dell’unità che esiste all’interno della nostra comunità e alcune cose su cui non abbiamo controllo. Quando lotti contro il governo, quando lotti contro i programmi politici della tua nazione, c’è sempre qualcosa di superiore che vuole fermarti.

Parlare di maledizione divina potrebbe in qualche modo giustificare un sistema razzista.
Giusto. Puoi intenderla come vuoi, ma il punto è quello. Possiamo sederci e parlarne per un giorno intero (Ride).

Quando vedi dei ragazzi bianchi rappare pezzi come Blacker the Berry, cosa ti fa pensare?
So che il mio pubblico ascolta quello che dico e che parlo a una certa fascia culturale. Quindi, il ragazzo delle periferie che non conosce la nostra storia, come siamo cresciuti, ascoltando le mie parole può imparare. È come una lezione di storia non fornita dalla scuola.

Hai detto di aver affrontato la depressione. Ne soffri ancora?
Ora come ora, sto bene. Non direi di essere felice. Non sono ancora soddisfatto. Ma non ho più una sensazione di stress personale così alto, no. È un buon momento perché posso aiutare la gente attorno a me.

Perché tanti finiscono con il distruggersi?
È facile. Specialmente con questo stile di vita. Tutto è alla tua portata, qualsiasi cosa tu voglia. Quando le luci sono su di te, c’è tutto quello che vuoi a tua disposizione. Ma chi sei davvero quando si spengono le luci? Si basa tutto sulla tua disciplina.

Sei ottimista o pessimista?
Sono un cazzo di ottimista. Non sarei qui se non lo fossi! Quasi tutti i miei migliori amici sono in prigione. Vogliono vedere le foto di tutti i miei show. Mi dicono, “Devi essere un ottimista per stare dove sei. Non eravamo così noi”. Ma non è solo quello. C’entra anche essere responsabili. Puoi parlare dei tuoi sogni tutto il giorno, ma devi fare qualcosa per raggiungerli.

Ma hai anche detto che siamo vicini alla Fine dei Tempi.
Sì, e lo affronto dando tutto me stesso, sempre, con la speranza di passare alla prossima generazione, o a tutte quelle che ci saranno ancora, la mia conoscenza. È tutto centrato sull’evoluzione dell’uomo. La gente dà di matto perché pensa che sia un’evoluzione fisica. No, è un’evoluzione mentale. Finché mi dedicherò con tutto me stesso al mio potenziale e a questo dono, non c’è nient’altro di cui io mi debba preoccupare. Posso andare a letto in pace. Posso lasciare tutto con la coscienza a posto.

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