Joe Strummer, l'ultima intervista | Rolling Stone Italia
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Joe Strummer, l’ultima intervista

Il frontman dei Clash è morto il 22 dicembre 2002. Ecco cosa ha detto l'ultima volta che l'abbiamo incontrato

Joe Strummer, l’ultima intervista

Joe Strummer

L’ultima volta che ho parlato con Joe Strummer mi è sembrato pieno di pensieri. Aveva appena finito le prove per il tour britannico dei Mescaleros, la sua nuova band, e sembrava non avesse alcuna intenzione di contattare i suoi vecchi compagni dei Clash – Mick Jones, Paul Simonon e Nicky “Topper” Headon – nemmeno per festeggiare l’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame.

Quel tipo di successo non era una novità per i Clash, almeno negli anni in cui erano ancora una band vera e propria. Il loro punk rozzo, insieme ai testi incendiari, aveva dato vita ad alcuni dei dischi più belli della storia del rock, The Clash e London Calling. La band, però, non è mai riuscita a sfondare oltreoceano come i colleghi dei Police o degli AC/DC. Il momento sarebbe arrivato più avanti, grazie al revival punk di formazioni come Green Day, Rancid e Offspring, band che hanno fatto capire a tutti l’importanza dei Clash per il pubblico americano.

Una settimana dopo la nostra chiacchierata, Strummer ha suonato con Jones tre brani dei Clash: Bankrobber, White Riot e London’s Burning. Non salivano sullo stesso palco da 19 anni. Un mese dopo Strummer è morto a causa delle complicazioni di una malattia al cuore. Ecco cosa mi ha detto in quella che, purtroppo, sarebbe diventata la sua ultima intervista.

Qual è stata la prima volta che hai capito di amare il rock’n’roll?
Quando ho ascoltato Not Fade Away degli Stones. Eravamo a scuola, ricordo che passava spesso in radio. Il brano era come un treno a vapore, è stato lì che ho capito che il rock sarebbe stato la mia vita. Ho pensato: «Ehi… wow!».

Cosa hai pensato quando i Clash sono entrati nella Hall of Fame? Insomma, lì ci sono anche gli Stones
Ho letto la notizia e mi sono detto: «Come Babe Ruth!». Non sapevo come reagire, diciamo che ci ho messo un po’ a realizzare tutto. E pensare che tutto è cominciato con quella vecchia chitarra nascosta lì nell’angolo… A un certo punto, però, tutto è diventato reale. Wow, sono nella Rock and Roll Hall of Fame!

Com’era stare sul palco con i Clash?
Hai presente quei vecchi video di lancio dei razzi? Quelle riprese degli anni ’60, forse le prime a colori, con tanto di countdown lanciato da quella voce baritonale… «Three, two, one…» e poi il razzo fa un buco enorme nell’atmosfera. Ecco i Clash erano così.

Eravate destinati a esplodere in fretta?
Sì, penso di sì. Noi non siamo mai stati come i Red Hot Chili Peppers, loro sono amici dai tempi della scuola. I Clash si sono conosciuti già adulti, a Londra. Le band durano più a lungo se sono nate giocando insieme a basket, a 8 anni o giù di lì. Noi ci siamo incontrati e la band è nata subito, non abbiamo perso tempo a volerci bene, a dire «ehi, bei pantaloni».

Perché vi siete sciolti?
Volevamo tutti prendere il controllo della band. Andava tutto bene quando avevamo obiettivi da raggiungere, ma quando la tua musica va nella top 10 ogni cosa  diventa stancante. O forse abbiamo detto tutto quello che avevamo da dire in cinque anni.

In che rapporti siete ora?
Ci siamo incontrati un paio di anni fa per ricevere l’Ivor Novello Songwriting Award, e devo dire che è stato stranamente piacevole. Siamo cresciuti e abbiamo smesso di portare rancore. Abbiamo sepolto l’ascia di guerra, o ci siamo dimenticati il perché di tutta quella rabbia.

Vi siete riuniti per alcune ristampe, è vero?
Sì, abbiamo fatto alcuni box set, abbiamo discusso e ascoltato molta musica. Mick e Paul hanno passato un sacco di tempo a sistemare il disco live (Live: From Here to Eternity), si sono chiusi in studio per più di un mese. E non hanno fatto a botte.

Come riassumeresti i Clash a qualcuno che non li ha mai ascoltati?
Gli direi: «Senti, amico, questa è la band che ha inventato tutto. Ascoltali subito!». No, scherzo. Credo di essere piuttosto modesto, penso che ci presenterei così: «Questo è il risultato di cinque anni di montagne russe, concerti e dischi». Parlerei della varietà della nostra proposta e di quanto valga la pena perdere qualche minuto per ascoltare la nostra roba. Non credo che mi vanterei più di tanto.

E se dovessi scegliere una canzone?
Sarebbe If Music Could Talk, sul lato 4 di Sandinista! ma la mia preferita è Rock the Casbah, per me è ancora il nostro pezzo migliore.

Ti ricordi com’era scrivere per i Clash?
Mi ricordo di aver scritto London’s Burning in una stanza all’ultimo piano. Ero ingobbito su questa Telecaster, senza amplificatore, e sussurravo: «London’s burning!», come se non volessi disturbare il sonno dei vicini. Ho scritto White Man in un appartamento di Canonbury, ci avrò messo un giorno e una notte. Ho torturato una vecchia macchina da scrivere avvolto da un’orribile luce al neon.

Se gli altri fossero d’accordo, torneresti a suonare quelle canzoni su un palco?
È divertente suonare quella roba, sono brani meravigliosi. Ma non siamo macchine, non possiamo semplicemente decidere di farlo. Dev’esserci lo spirito giusto, altrimenti non funziona.

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