"I See You", gli xx raccontano la loro crescita | Rolling Stone Italia
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“I See You”, gli xx raccontano la loro crescita

Ci siamo fatti raccontare il nuovo album del trio da Oliver Sim: «L’arte migliore nasce sempre da periodi duri». Arriveranno in Italia il 20 febbraio

The xx sono Romy Madley Croft, Jamie Smith e Oliver Sim. Foto: Francesca Allen

The xx sono Romy Madley Croft, Jamie Smith e Oliver Sim. Foto: Francesca Allen

Dopo la Brexit mio padre mi ha detto: “Guarda il lato positivo: il punk è nato durante gli anni in cui al governo c’era Margaret Thatcher”. È un lato positivo molto, molto piccolo, vero, ma io posso solo sperare che da un periodo storico come quello che stiamo attraversando nascerà dell’arte interessante». Ed ecco la cosa più personale che mi racconta Oliver Sim nell’arco di una lunga chiacchierata sul nuovo album degli xx, I See You.

Nella narrazione che circonda il gruppo, le parole “timidezza” e “introversione” vengono utilizzate come formule magiche da parte degli ammiratori, e la frase “non amano fare interviste” viene posta come inevitabile scoglio per chi cerca di porre loro qualche domanda. Oliver passa per essere il meno reticente dei tre, ma è anche uno che ha ottenuto un successo straordinario formando una band dove, alla chitarra, c’è la sua migliore amica, Romy Madley Croft, e alle percussioni c’è il dj e compagno di liceo Jamie Smith. Niente e nessuno gli ha imposto di diventare estroverso quando ha cominciato a vendere, a vincere il Mercury Prize, a ritrovare le sue canzoni nelle colonne sonore di un migliaio di serie tv. Quindi, bisogna prenderlo per come è. Oliver ha l’abitudine di rispondere alle domande con una rapida, energica serie di yeah. Se non ha niente da dire, fa cenno di sì con la testa e regge il tuo sguardo: lo yeah è una sorta di “chiedimi altro, grazie”. Ma si illumina come un bambino, quando un’osservazione lo trova d’accordo in maniera particolare, allora gli yeah! diventano una raffica. Si va avanti così, un pezzetto alla volta.

I See You arriva promettendo una nuova apertura del gruppo, con un’ambizione tanto generica quanto sincera: «allargare i nostri confini, uscire dal guscio». Fondamentali per quelle che sono poi diventate le canzoni presenti nell’album sono state le 10 serate di residency alla Park Avenue Armory, nel 2014: gli xx hanno suonato in una sala molto piccola, per un selezionatissimo pubblico di 40 persone al massimo. «È stato molto spaventoso, almeno per me, suonare in un contesto così intimo. Ma, allo stesso tempo, è stato anche fantastico. Poter sentire in tempo reale le reazioni di un pubblico sistemato tutto intorno a noi… Si percepiva il power shift, ogni minimo cambiamento dell’energia. Quelle serate erano più simili a performance teatrali che a una serie di concerti. E per noi sono state anche una sorta di prova generale per testare il materiale su cui stavamo lavorando».

Il pubblico dell’Armory, però, non per forza si beava dello spettacolo in corso. E non era obbligato a rispettare alcuna regola di buonsenso. «Ci sono stati dei momenti illuminanti. Forse un pezzo non è ancora solido come credi, se la gente che sta in prima fila si mette a giocare col telefono, oppure prende e se ne va mentre tu sei a metà della canzone. Sono cose di cui durante uno show normale non è possibile accorgersi, non quando stai sul palco con la luce negli occhi davanti a 10mila persone». A questo brusco risveglio è seguita una lunga registrazione, durata due anni, con varie tappe in giro per il mondo – Oliver snocciola paziente: «New York City, Reykjavík, Marfa, Los Angeles, Londra». All’inizio le canzoni erano più o meno pronte. O così gli xx credevano. «Ogni singola volta che entravamo in studio, pensavamo: “Questo è il giorno giusto, adesso registriamo tutto quanto l’album e non se ne parla più. Ci siamo”. Poi il nostro manager ascoltava tutto, noi gli chiedevamo: “Allora? Ci siamo? abbiamo finito?”, e lui rispondeva: “Adesso cos’altro contate di fare?” Il suo atteggiamento mi rendeva furioso. Però aveva ragione lui: non avevamo finito, potevamo ancora migliorare. Ci siamo fidati del suo giudizio. E abbiamo fatto bene, secondo me».

Nelle intenzioni – e nei risultati, va detto – I See You rappresenta una nuova maturità per il gruppo. «Col primo album non avevamo idea di chi fosse il nostro pubblico. Non sapevamo nemmeno se ce l’avevamo, un pubblico. Abbiamo scritto soltanto per noi. E il nostro suono, di base, era dovuto a una serie di incidenti. La gente ci diceva: “Quanto siete bravi, quanto siete minimali”, e noi rispondevamo: “Grazie!”, ma tutto quel minimalismo in realtà nasceva dai nostri limiti. Non sapevamo suonare in un altro modo. Col secondo album… forse abbiamo pensato: “Bene, ora sappiamo chi siamo, sappiamo che la nostra musica funziona, diamo al pubblico la stessa cosa e diamogliene ancora di più. Facciamo un album in cui concentriamo noi stessi al massimo”. E forse siamo stati un po’ troppo protettivi del nostro suono per come l’avevamo identificato fino a lì. Coexist era comunque la cosa migliore che potessimo tirare fuori nel 2012, ma credo che avremmo potuto cercare di andare oltre. Questa volta l’abbiamo fatto». Tra Coexist e I See You sono passati quasi cinque anni. In questo intervallo è anche cambiato il modo in cui gli xx compongono canzoni. «Quando abbiamo cominciato, io e Romy scrivevamo ciascuno per conto proprio, e solo in un secondo tempo ci trovavamo a incastrare i vari frammenti. Stavolta ci siamo confrontati tutti da subito, io, lei e Jamie. Lavorando faccia a faccia mi sono accorto che succede tutto molto più in fretta. Ti metti subito in discussione se stai nella stessa stanza con qualcuno, anche se quelle persone sono due cari amici. È una cosa che fa paura: non hai difese. Ed è strano, perché con la gente che ti conosce bene tu non dovresti sentirti così vulnerabile, e invece…».

Sapendo che è cambiato il loro modo di scrivere, l’effetto nell’album si sente moltissimo. Certo, On Hold è il singolo che una volta si sarebbe chiamato radio-friendly, insieme magari a I Dare You. Ma si fa fatica a isolare una traccia in un album che sembra fatto per essere ascoltato e riascoltato nel corso del tempo. Come un buon film di cui ci si gusta l’esperienza della visione integrale più che una singola scena da riguardare all’infinito. Oliver è felice del paragone. «Abbiamo concepito l’album proprio perché fosse qualcosa di unito, non una raccolta di brani. Doveva scorrere bene. A me piacciono le playlist su Spotify, io stesso ci ho scoperto un sacco di artisti. E mi sembra ottimo che la musica non sia mai stata tanto disponibile alle persone come adesso. Quello che mi piace molto di meno è il fatto che oggi venga automatico saltare da una traccia all’altra, da un genere all’altro. È divertente, ma non ci si sofferma su nulla».

Quando ci incontriamo, gli xx sono appena stati ospiti musicali al Saturday Night Live. Il programma è ancora considerato una vetrina importante, dove parecchi artisti considerati “minimali” si sono spaccati la faccia, ma gli xx se la sono cavata bene. «È stato molto surreale. E terrificante allo stesso tempo. Arrivi lì e ti ritrovi in un posto che ha una storia tutta sua, e tutti gli attori e i tecnici sono impegnatissimi e fanno prove continue, e tu sai che suonerai due pezzi in diretta, senza playback e senza la possibilità di ripartire da capo. Non devi pensare a chi è salito su quel palco prima di te: devi solo fare la tua parte e farla il meglio possibile».

Chiedergli se quel teatro di posa abbia davvero un’acustica tragica è inutile. Oliver non ama i pettegolezzi. C’è da capirlo: sia lui sia Romy sono stati outed durante una delle prime interviste; da allora, tutti e tre mantengono una riservatezza medio-alta sulle questioni personali, e condividono notoriamente abbastanza poco sui social, oltre a qualche foto che racconta il legame di forte amicizia che c’è tra di loro. Ma non è solo una questione di “timidezza”, o di comprensibile attaccamento alla privacy. «Continuo a pensare che più cose sappiamo sul conto di un artista meno siamo liberi di goderci davvero la sua musica. Io per primo non voglio sapere troppo dei musicisti che mi piacciono. Un conto è se la tua cifra stilistica è il diario o la confessione, perché allora può avere senso per chi ti ascolta cercare di tracciare una linea tra vita personale e musica, ma in tutti gli altri casi? No. Per me le nostre canzoni devono funzionare come un grande schermo sul quale le persone devono essere libere di proiettare qualcosa che appartiene a loro. Nei nostri testi non diciamo mai “lui” o “lei”, non citiamo mai un posto o un periodo preciso. È una nostra scelta. Quello che raccontiamo deve diventare la base di altre storie… Mi piace moltissimo quando i nostri fan vengono a conoscerci e ci raccontano cosa ritrovano di se stessi nelle nostre canzoni. Quella è una situazione a cui non voglio rinunciare».

E così ci mettiamo a parlare dei falsi musicali, le popstar del passato nemmeno così lontano che venivano costruite ad arte, con poco o nessun potere decisionale riguardo alla musica a cui dovevano soltanto prestare il volto. Oliver si ricorda molto bene la storia dei Milli Vanilli, due modelli/ballerini che, sul finire degli anni ’80, vennero spacciati per talentuosi artisti R&B, a dispetto del fatto che le vere voci appartenessero invece ad altri cantanti, tenuti nascosti nell’ombra perché molto meno fotogenici. Ci lamentiamo dell’uso dell’auto-tune quando abbiamo sentito molto di peggio, insomma. Chiedo a Oliver se, secondo lui, potrebbe ancora capitare una truffa come quella. «Non a un livello così clamoroso, non credo. Su una scala minore, però, l’industria musicale è ancora piena di personaggi a cui viene detto: “Queste sono le tue canzoni, questa è la tua immagine”. Di sicuro, è tutto un po’ meno plateale, e comunque spesso tu, da ascoltatore, lo accetti, perché anche questo fa parte del gioco. Ma non vuol dire che un musicista molto costruito sia per questo meno interessante. Prendi una come Rihanna: lei non si scrive le canzoni da sola, però a me piace un sacco lo stesso, anche se ci mette soltanto la voce e la presenza. Si fa per dire soltanto, eh. Rihanna prende un pezzo che è stato scritto da altri e lo fa diventare suo quando lo canta. La capacità di interpretare ha un valore enorme, avrà sempre un posto di primo piano nella musica. Come lo avrà sempre il pop da classifica». Anche a Oliver piacerebbe scrivere canzoni per quel genere di artista, però, aggiunge: «Non mi interesserebbe scriverle io da solo: sarebbe molto divertente farlo tutti e tre noi, insieme. Metterci insieme al servizio di una personalità simile». È una possibilità, ma è ancora lontana.

Guardando invece al futuro immediato, Oliver vede un anno pieno di concerti. E aggiunge: «Vedi, io devo continuare a suonare, perché non sono abbastanza qualificato per fare proprio nessun altro mestiere». Oliver sorride. È leggero, oggi. Preferisce mantenere le distanze e smette di prestarti attenzione, quando non è più obbligato a farlo per ragioni promozionali, ma non c’è davvero niente di distaccato in lui. Considerando il presente, c’è poco da essere ironici. Forse è tornato il momento di essere genuini.

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