Giovani islandesi poco raccomandabili. Intervista ai Fufanu | Rolling Stone Italia
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Giovani islandesi poco raccomandabili. Intervista ai Fufanu

Il 27 novembre esce "Few More Days To Go", esordio post-punk del duo nordico, che nei live si trasforma in quintetto. Li abbiamo incontrati

I Fufanu normalmente sono due, ma nei live il numero aumenta a cinque. Foto: Facebook

I Fufanu normalmente sono due, ma nei live il numero aumenta a cinque. Foto: Facebook

Nella rubrica web in cui consigliano ai lettori nuove band da tenere d’occhio, i nostri fratelli maggiori di Rolling Stone Usa hanno definito la musica di Kaktus e Gulli, a.k.a. i Fufanu, come: “I Disclosure al funerale di Bela Lugosi”. Definizione che se facessi post-punk mi farebbe girare le palle che non vi dico. Ovviamente non per Bela Lugosi ma per i Disclosure, due posh maledetti che sfornano tracce per fighetti con la sciarpa della Burberry: «Sì, anche noi non l’abbiamo capita molto», mi confida il giovane frontman, Kaktus, divertito per lo sproloquio sui Disclosure. «Ci hanno affibbiato molte etichette sbagliate, ma questa le batte tutte. Niente di più lontano da quello che siamo». L’album di debutto in uscita il 27 novembre, Few More Days to Go, non farà che confermarlo.

Di norma, chiunque suonasse 6-7 anni fa in una band adesso mette dischi techno e va in giro vestito di nero. Loro invece, islandesi belli determinati, sono il risultato di un processo evolutivo opposto: prima i rave techno con l’alias di Captain Fufanu, poi il duo post-punk/new wave (che nei live diventa un quintetto). «Questo perché siamo dei fighi. Sempre un passo avanti», si giustifica Kaktus, scherzando, ma neanche troppo. «In realtà abbiamo continuato a suonare ciò che ci va. All’inizio facevamo roba più elettronica, ma quella vena non è sparita del tutto, solo che ora suona più rock. Captain Fufanu era un progetto studiato apposta per i party». La tentazione di chiedergli del suo nome di battesimo è tanta, ma forse è più saggio limitarsi a quello della band: «Non significa assolutamente nulla. È un nome che ci siamo inventati molto tempo fa».

Nel frattempo sono cresciuti e, nonostante aprano regolarmente i concerti dei Blur, non hanno alcuna intenzione di lasciare Reykjavík. «In Islanda, la scena musicale gode di un’ottima salute. La musica pop fa cagare anche qui, ma c’è tutto un movimento underground in continua espansione. Come se ci fosse un ritorno al punk, almeno nell’approccio alla musica. Oggi però piove e fuori dalla finestra non è il massimo dell’allegria».

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