En?gma: «Non diventerò più trap per fare successo» | Rolling Stone Italia
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En?gma: «Non diventerò più trap per fare successo»

Dopo sei anni di soddisfazioni, ha lasciato Machete e Milano per tornare nella sua Olbia, «avevo bisogno di veri rapporti umani». Nel suo ultimo album 'Shardana', in uscita oggi, il rapper parla del suo viaggio e molto altro, dallo spazio cosmico a 'Cinderella Man'.

En?gma: «Non diventerò più trap per fare successo»

Foto di Riccardo Melosu

Quello di En?gma potrebbe essere considerato il primo esempio di decrescita felice applicato all’hip hop italiano. Co-fondatore della corazzata Machete insieme a Salmo, Hell Raton e dj Slait, dopo sei anni di soddisfazioni, trionfi e traguardi condivisi nel 2016 ha augurato buona fortuna ai suoi ex soci e ha deciso di mollare tutto, per tornare nella loro città natale, Olbia, e tentare un cammino di indipendenza e autoproduzione con tutte le incertezze del caso.

Allontanarsi all’apice del successo da un marchio così vincente poteva rivelarsi una scelta fallimentare, ma non lo è stata. La realtà che si è cucito addosso negli ultimi due anni è più a misura d’uomo che di rapstar: produzioni meno patinate ma di indubbia qualità, obbiettivi ben precisi e uno zoccolo duro di fan che per età e mentalità si avvicinano molto al loro artista preferito. Al suo fianco c’è un produttore, musicista e amico storico, Kaizén, che non gli fa rimpiangere per nulla quello che ha lasciato. «Io e lui siamo una piccola crew, di fatto: mi aiuta nella realizzazione del mio progetto a trecentosessanta gradi» spiega, trasudando una serenità che è raro trovare nei rapper mainstream di oggi. Shardana, il secondo album di questa sua nuova vita artistica, esce proprio oggi ed è un inno alla voglia di lottare, di non mollare, di combattere le ingiustizie. E soprattutto di trovare la propria strada, costi quel che costi.

Che cosa è cambiato, da quando hai lasciato Machete a oggi?
Molti magari non lo sanno, ma En?gma esisteva già prima di Machete: agli inizi, a Olbia, facevo rap da solo. Quella della crew e dell’etichetta, però, è stata sicuramente la fase più lunga della mia carriera, che è durata dal 2010 al 2016. Il cambiamento più grosso, insomma, è che ora sono totalmente indipendente.

Che è successo per convincerti ad allontanarti dal collettivo che avevi fondato?
Ti dico la verità: la mia decisione non è stata dettata da questioni artistiche o di suono, ma più che altro dai rapporti umani. Credo che potenzialmente sia Indaco che Shardana avrebbero potuto essere delle uscite Machete, come tipologia di progetto. Anche se entrambi gli album sono influenzati dalle mie esperienze di “guerriero solitario”, soprattutto Shardana: tanta aggressività, tante grida… Sembro una specie di eremita incazzato! (ride)

Infatti: da dove arriva questa combattività?
È la prima volta che un mio album ha uno stampo così aggressivo, anche se sicuramente nella tracklist ci sono anche episodi più morbidi. Sono una persona molto introspettiva, e in passato forse ero più concentrato sulla poesia, mentre stavolta la poesia è al servizio di quest’impeto che mi ha come travolto. Avevo davvero bisogno di un disco così, in cui sfogarmi per cose di cui magari non avevo mai parlato prima.

Incazzato contro cosa e chi, quindi?
Un po’ di tutto: le dinamiche della mia vita personale – che però assomiglia a quella di tutti, perciò chiunque si può ritrovare nei miei pezzi – ingiustizie, malessere per le piccole cose. Ti faccio un esempio stupido: ieri ero a cena in un ristorante qui a Milano, e c’era una coppia con un bambino molto piccolo nel tavolo di fianco al nostro, seduto sul seggiolone. Ha passato tutta la sera davanti all’iPhone, che i genitori gli avevano dato per rincoglionirlo in modo che se ne stesse buono. Mi intristisce e mi fa arrabbiare molto la piega che sta prendendo la società in questo momento. E spesso mi basta stare tre giorni in questa metropoli per assorbire tanta negatività.

È per questo che hai lasciato Milano e sei tornato a vivere a Olbia?
Esatto. Per come sono fatto ho bisogno di vivere in una realtà in cui ci siano dei veri rapporti umani, in cui sia facile beccarsi con una persona cara per andare a prendere un caffè dietro l’angolo, o trovare il tempo per allenarti con la squadra di calcetto. Per me tutto questo è davvero fondamentale, e a Milano non sono mai riuscito a costruirmelo, nonostante abbia vissuto qui per cinque anni. Questa, comunque, è solo la mia esperienza personale: ci sono tanti altri che dalla provincia sono scappati perché ci stavano male, e non li biasimo. Io amo molto viaggiare e a vivere in una grande città ci ho provato, ma se devo pensare a una base stabile, sarà sempre la mia città natale, dove c’è la mia famiglia.

Tornando all’album, una delle tracce più riuscite è Copernico, intrisa di simbolismi cosmici e astronomici. Come ti è uscita?
Sono molto affascinato dallo spazio, dagli astri, dall’influenza dei corpi celesti sulle nostre vite. E so che potrebbe risultare un po’ antico, ma mi piace anche l’idea di insegnare qualcosa nei miei brani: in Copernico, ad esempio, nomino i pianeti in ordine di distanza dal sole. Chissà, magari un giorno potrebbe tornare utile a qualcuno, se imparasse a memoria il testo! (ride) Detto questo, faccio anche diversi riferimenti a Dragon Ball e ad altri particolari molto meno scientifici. Mi piace mischiare l’alto con il basso.

In Francisco Marcelo, invece, dici “Il compromesso io mai”. Cos’è un compromesso, per te?
Se avessi rinunciato a tornare a Olbia e vivessi ancora a Milano, la mia carriera sarebbe agevolata: quello per me è un compromesso. Frequentare altri rapper o addetti ai lavori non perché mi sono simpatici, ma perché vuoi trarne dei vantaggi: anche quello è un compromesso. Inseguire il suono del momento per compiacere le masse, magari diventando più trap o più pop: compromesso. A me tutto questo non interessa. Quello che faccio, lo faccio a modo mio e perché mi piace, non perché mi conviene.

A proposito di altri rapper, nel brano con Bassi Maestro, Father & Son, giocate sull’idea delle generazioni diverse per presentarvi come padre e figlio…
Nel suo studio ho registrato l’EP Rebus e il Machete Mixtape II, negli anni abbiamo condiviso cene, serate, palchi. È sempre bello parlare con lui, sia sul piano personale che professionale, anche perché è uno dei pochi che è riuscito a trovare un modo per campare di rap in maniera intelligente: è un artista di quarantacinque anni che con il suo lavoro riesce a mantenere una famiglia, il che è quello che mi auguro per me stesso tra quindici anni. L’idea del pezzo, però, è partita da una questione molto meno esistenziale: il fatto è che, quando mi faccio la barba, tutti mi dicono sempre “Sembri il figlio di Bassi”… (ride)

La Cenerentola del Ring, invece, è ispirata al film Cinderella Man, giusto?
Giusto, abbiamo anche campionato la colonna sonora. L’avrò visto più di quindici volte, ma riesce sempre a commuovermi. È ambientato in un periodo storico difficilissimo, quello della crisi del ’29, in cui passavi dalle stelle alle stalle in un attimo. Ma il protagonista, il pugile James J. Braddock, è riuscito a rialzarsi nonostante tutti lo dessero per spacciato. Io non ho mai davvero toccato il fondo, come ha fatto lui, ma qualcosa in comune ce l’abbiamo: i valori, ad esempio. E anche a me capita spesso di sentirmi dire che sono sottovalutato. Io non mi ci sento, più che altro perché so di aver scelto una strada complicata, ma chiaramente avrei voglia di fare di più, di dare di più. Di prendermi una rivincita.

In quel pezzo dici di voler “Catturare il mio malessere personale / per suonarlo e per donarlo e perdonare”…
Esatto, ma la frase prosegue con “Anche me stesso per tutta la guerra / tutta la testa strapiena di merda”. Mi faccio mille paranoie, sempre. C’è questa famosa filosofia hawaiiana che si chiama Ho’oponopono che sostiene che devi saperti perdonare per tutte le cose cattive che pensi di te stesso. Vorrei essere capace di farlo. Cerco di lavorarci, e in questo la musica mi aiuta moltissimo.

L’album si chiude con Sobborghi, che ha una strumentale molto particolare, intimista, curata da te personalmente: a un certo punto entrano perfino dei cori di chiesa.
È un beat senza batteria, ho volutamente evitato di inserirla: andare a tempo senza avere un riferimento ritmico ti aiuta a dare ancora più peso alle parole. In ogni quartina entra un diverso strumento, che va a valorizzare il loro significato: i cori di chiesa, ad esempio, si inseriscono quando parlo della chiesa di Sant’Eustachio a Parigi. L’atmosfera è molto cinematografica e il testo è criptico, onirico, astratto. Una specie di outro del disco.

Hai cominciato a produrre da pochissimo, i primi due beat ufficiali che hai firmato sono contenuti proprio in Shardana. Continuerai anche su questa strada?
Vorrei cominciare a dare dei beat anche ad altri, sì. Ma sul medio-lungo periodo mi vedo più che altro a continuare a co-produrre con Kaizén: la strumentale di Che roba è?! (con il feat. Di MadMan, ndr) l’ho fatta con lui e il risultato mi piace tantissimo, c’è una bella sinergia. Credo che ci saranno parecchie occasioni per sperimentare, comunque: in un mercato come questo, in cui la vita media di un album è di qualche mese, bisogna continuare a sfornare continuamente materiale nuovo. Ed è quello che faremo.

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