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Dj Shadow ha sete di futuro

Ha una collezione mega di vinili, è sul Guinness dei Primati con un suo disco di soli campioni e ora ha fatto un album molto strumentale che, dice, è stato un po’ come scalare una montagna

Dj Shadow ha sete di futuro

Nel 1994 Andy Pemberton di DJ Mag si servì per la prima volta dell’espressione trip hop per descrivere in due parole un brano di DJ Shadow. Da allora, gli album del dj californiano hanno attraversato più fasi, che per quanto mi riguarda trovano il picco più alto in The Mountain Will Fall. Uno come lui, vero nome Joshua Davis, 44 anni, potrebbe sedersi sugli allori e cacciare fuori il tipico 15 tracce boom bap campionate dalla testa ai piedi che nessuno oserebbe fiatare. In fondo, è il tizio che ha 60mila vinili in una stanza, il virtuoso dei giradischi, quello che è finito sul Guinness dei Primati per essere stato il primo a firmare un album di soli campioni. E invece no. Con una sete di futuro che a momenti non possiede neanche chi è nato 20 anni dopo di lui, Josh ha plasmato lentamente un’opera singolare, con l’intento di stupire chi si aspetta un disco da beatmaker armato di Akai MPC (il suo storico campionatore). Al terzo giorno di interviste, comincia ad accusare la stanchezza, ma quando gli confido che Depth Charge è la mia preferita di The Mountain Will Fall, il suo volto si anima come se non fossero passati 20 anni dal suo primo album.

Quanto spazio occupa una collezione di 60mila LP?
In realtà, il grosso della mia collezione sono 45 giri: nove anni fa ne ho comprati 400mila e poi li ho divisi con un amico. Basta una stanzetta per contenere i 45 giri, mentre per gli LP ho bisogno di uno spazio di 50 metri quadri all’incirca. Ti stupiresti di quanto poco possano occupare. L’importante comunque è la qualità, sono per la maggior parte dischi hip hop.

E di trip hop? Come vedi il suo ritorno?
dj shadow Penso soprattutto ai 25/30enni di oggi che tendono a idolatrare la metà degli anni ’90 e i suoi dischi. È interessante parlare con loro perché c’è questa sorta di innocenza diffusa che mi fa sentire un po’ vecchio e disilluso. Non c’è nulla di male comunque nel ritorno di vecchie glorie.

E sono tornati anche i Rage Against The Machine ma senza Zack De La Rocha: come sei rimasto con lui?
L’ho visto al Coachella. Sia io che lui ci siamo esibiti sul palco coi Run the Jewels. Non ci vedevamo da molto tempo, almeno da quando ci siamo riappacificati nel 2012 sempre al Coachella. Sono stato a lungo incazzato con lui: avevo lavorato al suo nuovo album e di colpo era sparito per cinque anni senza dare notizie.

Hai mai capito perché?
No, ma ho qualche sospetto. Comunque lui non ne vuole parlare, e io nemmeno. Acqua passata.

E tu come mai sei tornato con un disco così oscuro?
Cerco sempre di fare dischi interpretabili in diversi modi a seconda di chi li ascolta. Pensa che qualcuno mi ha detto: “Si sente proprio che ti sei divertito a farlo!”. Un album di successo per me è quello che riesce a fare leva su una frequenza subconscia. Ognuno ha la sua, puoi chiamarla “autostrada della creatività” o “frequenza divina” ed è un concetto che ritorna spesso fra gli artisti spiritual jazz. Non so se ci sono riuscito, ma ho fatto del mio meglio. A volte ci vogliono ore soltanto per entrare nel giusto mood prima di toccare gli strumenti.

È un disco mille volte più strumentale dell’ultimo.
Non volevo riempirlo con mega ospiti, vocalist, rapper. Volevo che suonasse come me, tanto che ho finito per mixarlo io stesso, e non succedeva dai tempi di Endtroducing. Vedi, quando lo consegni a un fonico di mix, inevitabilmente smette di essere tuo del tutto.

Sono d’accordo. Però non capisco una cosa, perché la montagna dovrebbe cadere?
In parte, il titolo è un’analogia col processo creativo. Il giorno in cui ho iniziato a comporre le musiche, ho scritto su Twitter di sentirmi come uno scalatore ai piedi della montagna. L’ascesa sembra sempre impossibile dal fondovalle, ma se continui a camminare ti stupisci di quanta strada puoi fare anche in poco tempo. Qualcuno poi mi ha fatto notare che sarebbe stato un bel nome per un album, perciò l’ho chiamato così.

Sei tu l’omino che nell’artwork perde la corona?
Potrei essere io come chiunque. L’idea della copertina mi è apparsa come un flash, l’ho descritta al mio amico Paul, che poi l’ha disegnata: un uomo con una corona e una montagna che punta dritto al cuore.

Per i campioni ti affidi alla tua libreria di dischi immensa oppure hai ceduto al fascino di Internet?
Se sono citazioni hip hop o simili mi affido ciecamente alla libreria. Ma è anche ok campionare cose da Internet, se mi serve una parola precisa o un effetto. Tutti gli scratch però vengono dritti dai miei vinili.

È ancora rischioso campionare al giorno d’oggi?
Non è mai stato più rischioso! La musica non ha mai avuto meno valore, al contempo la legge non è mai stata più severa e il capitalismo più folle. Ormai è visto come un fastidio, per questo la mia visione sul sampling è cambiata diversi anni fa. La mia generazione è stata perseguitata per questo. Infatti, per il nuovo album ho voluto limitare al minimo i campioni.

Mentre il tuo primo disco era finito sul Guinness dei Primati perché composto interamente di campioni…
Sì, lì era l’esatto opposto. E, paradossalmente, all’epoca avevo molti più limiti tecnologici, potendo contare solo su pochi secondi di campioni memorizzati sull’MPC (Akai, il modello del campionatore, ndr). Oggi non mi sognerei mai di farlo, son cambiate troppe cose.

Ma le amicizie no, tipo quella con i Run The Jewels.
Nobody Speak è stata una delle prime tre o quattro tracce che ho scritto per il disco. Non volevo fare la classica base boom bap anni ’90, ma, quando è successo, non mi sono fermato lì. Ho cercato di dargli un non so che di contemporaneo, se non addirittura innovativo. A quel punto, ho pensato a Run The Jewels, perché è l’unico gruppo uscito dall’epoca del piatto-rullante-cassa che spinge ancora verso il futuro. Siamo amici da una vita, e gli amici, si sa, bisogna tenerseli stretti.

L’articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di luglio/agosto.
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