Perché Apple deve 13 miliardi di euro di tasse all'Irlanda, e perché l'Irlanda non li vuole | Rolling Stone Italia
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Perché Apple deve 13 miliardi di euro di tasse all’Irlanda, e perché l’Irlanda non li vuole

E perché ci si è messa di mezzo l'Europa, come funziona la tassazione delle multinazionali... Quello che c'è da sapere su cosa è successo ieri all'azienda di Cupertino

Perché Apple deve 13 miliardi di euro di tasse all’Irlanda, e perché l’Irlanda non li vuole

Nella giornata di ieri la Commissione Europea ha deciso che Apple dovrà restituire una somma di circa 13 miliardi di euro per tasse non pagate verso lo stato irlandese, che per circa dieci anni ha garantito all’azienda di Cupertino un regime fiscale decisamente agevolato. Praticamente è elusione fiscale. Non è una multa, ma una richiesta di rimborso “a posteriori” dopo aver accertato che, per attirare sedi di multinazionali, il governo irlandese ha creato condizioni vantaggiose e un sistema di concorrenza sleale. La situazione è tragicomica: Bruxelles dice a Dublino di recuperare dei soldi – e sono tanti soldi – che Dublino non vuole recuperare perché pensa di non aver fatto niente di male. Tim Cook, AD di Apple, ha pubblicato una lettera in cui racconta la sua versione dei fatti: «La Commissione Europea si sta sforzando di riscrivere la storia di Apple in Europa, ignorando le leggi fiscali irlandesi e capovolgendo i sistemi contributivi internazionali. Le conclusioni diffuse il 30 agosto dicono che l’Irlanda ha fatto ad Apple degli sconti speciali sui contributi fiscali. Questa cosa non ha nessun fondamento nei fatti o nella legge. Non abbiamo mai chiesto uno sconto e non ne abbiamo mai ricevuto uno. Ora ci troviamo nella strana posizione di essere obbligati a pagare retroattivamente delle tasse a un governo che dice che non gli dobbiamo altri soldi rispetto a quelli che abbiamo già versato».

Lo schema di come vengono ripartiti i guadagni di Apple in Europa

Lo schema di come vengono ripartiti i guadagni di Apple in Europa

Cosa è successo? È la solita, antipatica, questione delle scatole cinesi. La Apple opera in Europa con due società controllate al 100%: Apple Sales International e Apple Operations Europe. I guadagni di questi due soggetti passavano direttamente alla “casa madre” e solo una minima parte restava e, quindi, veniva tassata secondo un regime fiscale agevolato (vedi immagine qui sopra). Secondo Tim Cook, però, bisogna individuare il luogo in cui viene creato il “valore”: «Le tasse per le multinazionali sono complesse, ma un principio fondamentale viene riconosciuto in tutto il mondo: i profitti di una società vengono tassati nel paese dove viene creato il valore. Apple, l’Irlanda e gli Stati Uniti sono tutti d’accordo su questo principio. Nel caso di Apple, quasi tutta la ricerca e sviluppo è fatta in California, quindi la gran parte dei nostri profitti sono tassati negli Stati Uniti. Le società europee che fanno affari negli Stati Uniti sono tassate con lo stesso principio. Ma la Commissione sta chiedendo che queste regole vengano cambiate retroattivamente». Secondo alcuni politici di area socialista (e quindi, per quanto riguarda l’Italia, del Pd), questa giusta decisione della Commissione deve dare il via a una serie di revisioni che permettano di adeguare il sistema fiscale ai tempi globalizzati in cui viviamo per non dover ripetere casi del genere e evitare ripercussioni anche abbastanza “d’impatto” su potenziali posti di lavoro. C’è chi pensa che Apple sia solo la prima di tante aziende che saranno colpite. La Commissione Europea, del resto, non è nuova a procedimenti in favore della concorrenza leale. Fu Mario Monti (proprio lui!) come membro della Commissione guidata da Romano Prodi (periodo 1999-2004) ad approfondire questioni sfociate poi nel procedimento verso Microsoft e nel blocco della fusione tra General Electric e Honeywell.

Adesso sia il governo irlandese, sia l’azienda di Cupertino che ha praticamente forgiato l’immaginario collettivo della nostra generazione faranno ricorso in appello (nonostante il Sole 24 Ore stimi che questi 13 miliardi rappresentino appena il 6% della liquidità di Apple) e la vicenda è ben lungi da essere chiusa. Di certo, questo provvedimento dovrebbe aprire davvero una necessaria riflessione sulla globalizzazione, il mercato, le tasse e come vada gestita l’elusione fiscale delle grandi aziende – negli scorsi anni sono state commutate sanzioni a Starbucks e Fiat per lo stesse genere di motivazioni – e, soprattutto, delle grandi aziende del comparto innovativo (ad esempio il recente caso delle tasse pagate da Facebook in Italia) e della cosiddetta “sharing economy” (quand’anche di “sharing” v’è poco: dove pagano le tasse servizi che generano enormi ricavi come Uber e Airbnb, vere e proprie multinazionali?). La questione è complessa, quasi geopolitica perché pone in campo questioni sulla geografia del potere, i confini nazionali e i rapporti sempre complessi e sbilanciati tra mercato e politica. Resta però un precedente importante e rumoroso. A conferma di come la globalizzazione abbia permesso tantissime cose belle ma lasciato zone d’ombra molto importanti che, alla lunga, rischiano di portare a conseguenze inaspettate e spiacevoli anche nella vita quotidiana. A Cork, ad esempio, Apple dà lavoro a 6,000 persone: loro non c’entrano niente con quello che è successo, ma se l’azienda dovesse rivedere i suoi piani di sviluppo in seguito a questo fatto, potrebbero pagarne un prezzo decisamente elevato.

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