Leonard Cohen, la prima intervista | Rolling Stone Italia
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Il modo di dire addio a Leonard Cohen

Un anno fa a Los Angeles moriva a 82 anni lo straordinario artista canadese. Ora un libro ripercorre attraverso 50 interviste mezzo secolo di una carriera febbrile, sempre vissuta alla ricerca di se stesso. Questo è quello che pensava e diceva della sua arte nel 1966

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“Cohen non amava farsi intervistare perché non aveva tempo. Cohen amava, scriveva, viveva”. Lo scrive Franceco Bianconi nella prefazione di Il modo di dire addio, il libro del Saggiatore che raccoglie le (non moltissime, per il motivo che spiegava il cantante dei Baustelle) chiacchierate che il cantautore canadese ha concesso ai cronisti in 50 e più anni di carriera. Il volume, nelle librerie a un anno dalla morte di Cohen, avvenuta il 7 novembre del 2016 nella sua casa di Los Angeles, pochi giorni dopo la pubblicazione del suo ultimo album capolavoro, You want it darker, racconta attraverso le sue parole una vita di musica, tormenti, misticismo e costante ricerca. Cohen racconta alcune delle sue canzoni cult, parla d’amore e poesia, di alcool, LSD e filosofia zen.

Per concessione dell’editore vi proponiamo in versione integrale prima delle oltre 50 interviste che compongono il libro. Risale al 23 maggio 1966, quando Leonard Cohen trascorreva gran parte della sua vita in solitudine sull’isola greca di Idra. Tra i pochi che riuscirono a intervistarlo in quel periodo ci fu Adrienne Clarkson, della Canadian Broadcasting Corporation. Mancava ancora un anno e mezzo all’uscita del suo album d’esordio, ma il 31enne Cohen si era già fatto notare per le sue poesie e i romanzi. E le critiche non erano state positive, se è vero che il Toronto Daily Star lo definì “un libro tra i più rivoltanti mai scritti in Canada”, mentre per il Time Losers non si può definire altro che l’esposizione di un fiacco flusso di concupiscenza… nauseante“.

La copertina del libro

L’intervista si apre con Cohen che legge una poesia in camera. 

Che effetto fa leggere una poesia che avevi dimenticato? Sembra scritta da qualcun altro?

Be’, adesso ho fatto solo finta, perché per ragioni di coerenza avevo già dovuto rileggerla, ma non la prendevo in mano da tanto tempo, per cui ho saltato un verso e ne ho dimenticato il significato generale.

Non ti dà fastidio? Le tue poesie non sono parte di te come poeta?

Non mi dà fastidio perché non credo si sia perso niente. Penso che il messaggio venga trasmesso principalmente dal corpo, dagli occhi, dalla voce. Avrei potuto leggere le istruzioni sulla latta del lucido da scarpe allo stesso modo.

Perché scrivere poesie, se è come leggere le istruzioni del lucido da scarpe?

Dipende. Se si vuole che la gente abbia scarpe belle lucide, bisogna scrivere istruzioni ben precise. Per far risplendere altre parti di sé, invece, si usa la poesia.

Come puoi associare la creazione di un’opera d’arte alla lucidatura delle scarpe?

Dipende da dove si guarda. Tutto sta in come è impostato il proprio binocolo. Se si sta alla giusta distanza, è probabile che il risultato sarà lo stesso. Conosci la storia del giocoliere che faceva tutte le sue acrobazie e i giochi di equilibrismo di fronte a una statua della Madonna? Penso che si riduca tutto a questo: facciamo solo ciò che ha una determinata risonanza in noi.

È questo il segreto della tua poliedricità?

Ma se sono tutto d’un pezzo!

Tu puoi anche pensarla così, ma devi ammettere che, per chi ti vede dall’esterno, il poeta, il romanziere, l’uomo che vive sull’isola di Idra, rampollo di una famiglia ebrea di Montréal, cantante e autore di pezzi pop… tutte queste cose insieme equivalgono a Leonard Cohen, ma a un primo sguardo possono risultare complesse da decifrare.

Ritengo che i confini tra un’attività e l’altra siano diventati ben più nebulosi e che la gente non sia più capace di assumere un ruolo specifico, dal poeta in cima alla montagna con il suo mantello al cantante che soddisfa le masse. Quel genere di atteggiamento ormai non ha più alcun senso. È tutta questione di ciò che ci capita tra le mani: se si tratta di cantare, allora lo si fa. Se qualcuno mi proponesse di progettare un edificio, lo farei. Se mi proponesse di governare uno staterello, lo farei. Proverei qualunque cosa.

Leonard Cohen, foto IPA

Non ti dispiacerebbe se l’edificio che hai progettato crollasse, o se il Paese che hai tentato di governare sprofondasse nel caos?

Non penso che l’edificio crollerebbe, e forse sono arrogante nel credere che il paese riuscirebbe a (farcela)… conoscevo un tizio (si riferisce a Michael X) che ha cercato di prendere in mano le redini di uno stato. Un mio amico, in Inghilterra. È a capo di un vasto movimento nero da quelle parti e probabilmente presto riuscirà a conquistare un qualche paese. Gli ho chiesto quale sarà l’obiettivo del suo governo e la risposta è stata: «Proteggere il popolo dal governo, perché sta già bene così. La gente se la caverà da sola, il mio governo si occuperà solo di tenere alla larga i problemi». Le cose sono molto più concrete di quanto pensiamo. Perciò credo che il mio edificio reggerebbe. Potrebbe restare in piedi o crollare a seconda delle esigenze di chi lo abita. C’è chi potrebbe volere che l’edificio gli crollasse addosso, a un certo punto. Un mio amico ha disegnato un murales per una caffetteria di Montréal, ricoprendolo con una colla molto particolare. In inverno la colla si asciuga, il murales si sgretola e lui viene ingaggiato per ripararlo. «Le automobili vengono progettate secondo il principio dell’obsolescenza programmata, perché i murales no?» mi ha detto.

E la poesia?

Penso che il tempo e la storia rendano una poesia obsoleta, a meno che non si tratti di qualcosa di davvero straordinario; ma non si può mai sapere quando si arriva a quel livello.

Ah no?

Qualche volta sì. Ma a me non interessa la posterità, che qualcuno ha definito un’insignificante forma di eternità. Mi piacerebbe che i giornali titolassero… invece del caso Spencer (possibile riferimento all’impiegato delle poste di Vancouver George Victor Spencer, scoperto a passare informazioni all’Unione Sovietica), qualcosa del tipo «Il pittore canadese Harold Town ha terminato il suo ultimo dipinto». Vorrei che le cose che faccio avessero un’immediatezza diretta, anziché permanere nel tempo. Non sono interessato a stipulare un’assicurazione sul mio lavoro.

Quindi, sempre a proposito di poliedricità, cos’è che ti piacerebbe fare? Ti piacerebbe scrivere un musical, come dice di voler fare Town?

Sì, certo, mi piacerebbe scrivere un musical.

Ah sì? E su cosa?

Dovrei farmi venire un’idea. Ma mi piacerebbe provarci. Magari assegnando a Town la parte principale.

Town canta?

Sì, di continuo. È un ottimo cantante.

Cioè… seguendo le note e tutto?

Non è il tipo che si lascia imporre dei vincoli.

Credi che serva, cantare?

Credo serva a qualunque cosa.

Vuoi dire che bisogna dissociarsi dalla società? È una frase orribile, lo so, ma non sapevo come altro dirlo.

Sarebbe un gran bel trucco, se funzionasse, ma non conosco nessuno a cui sia mai riuscito. Siamo tutti sulla superficie dello stesso pianeta e non mi risulta che qualcuno sia mai riuscito a chiamarsene fuori, a parte gli astronauti, che però tornano sempre indietro. E portano con sé i loro panini con la carne affumicata. Nessuno vuole davvero andarsene.

Quando ti rifugi nella tua casa di Idra, è perché vuoi andartene? Ti lasci mai dietro qualcosa?

Per il momento non ho intenzione di tornarci: sono sei anni che vado avanti e indietro dalla Grecia e nei giorni scorsi ho iniziato a riscoprire Toronto. Non è per niente male.

La trovi stimolante?

Trovo che sia una rivoluzione felice.

Una rivoluzione?

Be’, oggigiorno si definisce così qualunque cosa. In Québec è in atto una rivoluzione silenziosa, mentre qui è una rivoluzione felice. Ieri sera passeggiavo per Yorkville Street ed era pieno di bella gente. Ho pensato che avrebbero potuto riversarsi anche su altre strade, magari persino a… coome si chiama il quartiere finanziario? Bay Street?

King & Bay.

King & Bay. Ho pensato che presto potrebbero arrivare anche lì.

Pensi che la gente abbia bisogno del genere di felicità di cui canti?

Non stabilisco io i criteri per la felicità. A me piace cantare, punto. Non ho intenzione di diventare un cantante affermato, mi basta alzarmi, cantare il mio pezzo e poi tornare a sedermi e ascoltare gli altri.

Davvero non hai preferenze, cose che ti piace più o meno fare? Al momento ti stai dedicando alle canzoni. Non scrivi più poesie e neppure romanzi, quindi preferisci le canzoni.

Ho una nuova raccolta di poesie pronta da pubblicare… ma non voglio intasare il mercato con il mio lavoro, per cui preferisco aspettare un po’. No, le cose funzionano oppure no. Quando si è felici lo si sa. Si è tanto parlato di come funzioni la felicità, tra psichiatria e medicine, pensiero positivo e ideologie, ma in realtà penso che il meccanismo sia tutto lì. Basta fermarsi un minuto o due per capire a che punto ci si trova.

E per sapere a che punto ti trovi… non hai bisogno di niente, né droghe né alcol?

Non è questione di averne bisogno o meno. Si può trarre spunto dalla visione del mondo che dà l’alcol, come si può trarre spunto dalla visione del mondo che dà l’LSD. Sono tutte sostanze ricavate dalle piante, e sono lì per noi, per cui penso sia giusto approfittarne. Ma si può ottenere un altro tipo di effetto anche rifiutandosi di usarle. Le possibilità sono infinite. Anche l’ascetismo è uno sballo. La voluttà è uno sballo. L’alcol è uno sballo. (Harold) Town dà il meglio di sé quando beve. Io mi comporto da scemo e in genere vomito. Ma ci sono persone che con l’alcol tirano fuori il meglio di sé.

Vedi sempre il mondo in termini di sballo o non sballo, o è solo un modo per richiamare certe sensazioni?

Non è solo questione di sensazioni. Quando parlo di sballo non mi riferisco a quella fase di sovraeccitazione in cui ci si muove vacillando, si abbattono edifici e ci si lascia andare a risate isteriche. Mi riferisco a quando, in qualche modo, uno trova il proprio posto. Tutto è in equilibrio. Si è al centro della propria orbita o, come dice Dylan, pronti a svanire nella parata di se stessi.

In una delle tue poesie (Why I Happen to Be Free, da Flowers for Hitler) dici: “Now more than ever I want enemies“. In una poesia in cui la gente complotta per renderti libero. È così che ti fanno sentire le critiche al tuo libro?

Assolutamente sì. Starei da cani a sentirmi lodare da persone che si sono espresse duramente nei miei confronti. Innanzitutto, penso che in un certo senso ci sia una guerra in atto.

Che tipo di guerra?

Be’, si tratta di una guerra molto antica e credo che se provassi a descriverla in modo troppo articolato finirei per passare dall’altra parte, ma penso tu sappia di cosa sto parlando: siamo nel bel mezzo di una guerra e, se dovessi scegliere da che parte stare, cosa che non amo fare, penso che verrei definito esattamente come ha fatto la stampa ufficiale.

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