Dylan Dog, Gli anni selvaggi: quando l’indagatore dell’incubo era un roadie | Rolling Stone Italia
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Dylan Dog, Gli anni selvaggi: quando l’indagatore dell’incubo era un roadie

In edicola dal 29 dicembre, è il 364° della serie pubblicata dalla Sergio Bonelli Editore, e racconta un pezzo del passato nel rock di Dylan

Dylan Dog, Gli anni selvaggi: quando l’indagatore dell’incubo era un roadie

“Il rock’n’roll”, dice a un certo punto Dylan, la faccia seria, il ciuffo ribelle, la maglia a giro maniche, “è una cosa pura”. Il problema, insomma, è quando scende a compromessi, quando “la macchina del successo”, il vero demone de Gli anni selvaggi, numero 364 della serie, in edicola dal prossimo 29 dicembre, prende il sopravvento. E da cosa pura, il rock’n’roll diventa solo un altro modo per fare soldi: ne Gli anni selvaggi, addirittura, fa impazzire la gente e si trasforma in una fonte di dolore.

Le prime tavole, che fanno da overture al resto del fumetto, sono piuttosto significative: il protagonista è un ragazzo che ascolta dischi (lo stereotipo del rockettaro tutto borchie, giaccone di pelle e modi scostanti), e che alla fine, gli occhi spiritati, la bocca sporca di sangue, dice: “questa è decisamente buona musica”. Sì, insomma. Alla sceneggiatura c’è Barbara Baraldi – anche il soggetto è suo – e al disegno Nicola Mari: il suo Dylan è più sottile, più effeminato, le labbra sono più carnose e il tratto – il contorno, i lineamenti, i dettagli – sono più spessi. Più che tavole di un fumetto, le sue sembrano manifesti di un concerto: figure fisse, spazi ben precisi e movimenti appena accennati. Un po’ come la copertina di Gigi Cavenago, stupenda.

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La storia inizia nel presente, quando Dylan incontra un suo vecchio amico (“che fai, traslochi?”), e fa avanti e indietro con il passato. Ci sono i ricordi, i rimpianti, “quello che volevamo fare” e “quello che poi siamo diventati”. Un Dylan umano e i mostri che siamo noi; anzi no, meglio: i mostri sono i nostri desideri – e quello che, pur di realizzarli, siamo disposti a fare. Come finisce non è difficile capirlo. Qui Dylan non riesce nemmeno ad essere l’Indagatore dell’Incubo: viene sopraffatto dalla nostalgia e dal ricordo di lei – c’è sempre una lei – che gli manca. Subisce quello che succede; subisce quello che scopre e che è condannato a rivivere. Dylan è uno di noi: uno spettatore.