Tutta l'arte di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo | Rolling Stone Italia
Arte

Tutta l’arte di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo

È fra le 100 personalità più influenti del mondo dell'arte. L'abbiamo incontrata ad Artissima, dove ci ha raccontato la rinascita italiana e dell'ironia con cui sta cambiando l'arte contemporanea attraverso i social

È collezionismo, bellezza. Certo fa un certo effetto vedere nella stessa mostra Damien Hirst, Maurizio Cattelan o Sarah Lucas e la gigantesca testa del faraone Tutmoside, una Bibbia del 1280 o la statua funeraria di una dama cinese del II secolo a.C. Eppure il risultato è esplosivo. È Come una falena alla fiamma, esposizione che durante la settimana dell’arte torinese ha messo in scena l’ossessione e la passione dei collezionisti del capoluogo piemontese. Certo l’occasione era quella giusta, perché il mondo dell’arte la prima settimana di novembre si riunisce a Torino (c’è la fiera Artissima, con il debutto alla direzione di Ilaria Bonaccossa), e quest’anno era quello dell’inaugurazione delle nuove OGR, uno spazio mozzafiato appena restituito alla Città e diretto da Nicola Ricciardi, ma anche quello del venticinquesimo anniversario della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, istituzione creata dall’omonima e sabauda Patrizia, divenuta un punto di riferimento a livello internazionale. Questa mostra si divide proprio nei due spazi della Fondazione e delle OGR, ed è un viaggio nel tempo che a un certo punto diventa un viaggio senza tempo. Il collezionismo come Stele di Rosetta, come codice per leggere il destino del mondo, attraverso epoche e generazioni di artisti che sembrano convivere da sempre.

‘Come una falena alla fiamma’, l’installazione ospitata dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo


Certo la Fondazione Sandretto ci ha abituati a progetti straordinari, ma non solo. Negli anni ha saputo creare un’identità del tutto nuova nel panorama dell’arte contemporanea, con mostre ricercate e di livello che però cercano l’approccio con il grande pubblico. A partire dall’immagine che ha scelto: fatevi un giro sui profili Instagram e Facebook della fondazione e capirete che ci vuole molto coraggio per scegliere l’ironia come chiave promozionale nel mondo dell’arte. Ma si sa che l’autoironia è il modo migliore per non farsi prendere per il culo.

Siamo andati a incontrarla in Fondazione durante l’inaugurazione di questa mostra che dovete assolutamente visitare. Non possiamo non vederla tra la folla, perché ha un vestito fucsia che porta con un’eleganza che poche altre potrebbero permettersi (che è fucsia me lo hanno detto, perché per noi uomini, dal lilla all’indaco, è tutto “viola”). Altra rarità per il mondo dell’arte, è simpatica e gentile. Andiamo negli uffici sopra lo spazio espositivo, lei è scortata dal suo uomo della comunicazione, Silvio Salvo, e da Giorgina Bertolini, la “preside” della scuola Rebaudengo. E siccome le coincidenze, come i guai, non vengono mai da sole, proprio quel giorno è uscita la classifica di Art Review con le 100 personalità più influenti del mondo dell’arte: sul lato italiano vediamo Massimiliano Gioni, Cecilia Alemani, Miuccia Prada, i galleristi di Continua e Massimo De Carlo, e naturalmente lei, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo.

«Non sarei sincera se ti dicessi che non mi importa. Però, anche se ti sembrerò retorica, io faccio tutto questo perché ci credo e non per entrare nelle classifiche. Sono stata molto fortunata: ho potuto vivere questo mondo speciale, frequentare gli artisti, e quello che faccio lo sento in qualche modo come un restituire ciò che ho avuto».

Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Foto di Elena Aquila/Pacific Press/Alamy Live News via IPA Agency




Hai ridisegnato il ruolo del collezionista, diventando una figura pubblica.

Non so se ho riscritto la figura del collezionista. So che la mia collezione è il frutto dell’incontro tra la mia biografia e le storie di tanti artisti.

Questa è la forza del collezionare contemporaneo? Il fatto di poter vivere gli artisti?
È la cosa più importante. Il collezionare contemporaneo ha qualcosa in più. È una relazione, un rapporto, dialogare, crescere. È imparare a leggere il mondo in altro modo, attraverso gli occhi di qualcun altro. È saper ascoltare e parlare un po’ meno.

È una collezione molto particolare la tua. Non si trova tutto il parterre dei nomi di grido.
Non ci sono tutti i nomi più noti, ma ogni opera ha una sua importanza. Ogni artista ha voluto raccontarci qualcosa nel momento in cui l’ha prodotta. Sono opere con forte significato politico e sociale, che raccontano il momento in cui viviamo. E questo lo intercetti solo se fai un viaggio con loro. In questi anni ho disegnato la mia mappa, la mia geografia, il mio viaggiare. Tenendo alla larga l’aspetto speculativo.

Prima ci si vergognava un po’, sembrava che si dovesse nascondere per il rischio di ostentare.
Io all’inizio mettevo il nome della collezione e la gente mi chiedeva se fossi fuori di testa. Ecco, da questo punto di vista forse ho un po’ scardinato, mi sono assunta un ruolo mettendoci la faccia.

Infatti per fare questa mostra, che ha messo in scena il concetto di collezionismo torinese, ci è voluto coraggio e anche un po’ di faccia tosta. Il rischio era grande. So che è stata una tua idea, nata una sera davanti a una bottiglia di barolo.
Ti devo confessare infatti che ho avuto ansia. Questo progetto nasce in modo particolare: noi abbiamo una scuola per curatori, siamo alla decima edizione. Abbiamo invitato direttori di scuole curatoriali importanti, tra i quali Tom Eccles del Bard College di New York. E poi Mark Rappolt, redattore capo della rivista inglese Art Review. La sera, a cena, raccontai loro che nel 2017 sarebbero stati 25 anni da quando ho comprato le mie prime opere di arte contemporanea, e che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa sulla collezione. Tom ha dimestichezza con le collezioni, perché il Bard ne ha una molto grande con la quale lavorano gli allievi, e mi ha detto “mi piacerebbe curarla”. E allora lui e Mark sono venuti spesso a Torino, l’hanno presa sul serio. Poi a completare il trio si è aggiunto l’artista britannico Liam Gillick. Hanno visitato i musei della città: il Museo Egizio, Palazzo Madama, il Museo del Cinema. Sono rimasti molto colpiti dalla quantità di opere d’arte che arrivano nei musei attraverso i collezionisti. Lo stesso Museo Egizio è nato grazie al fatto che Bernardino Drovetti, che è stato Console in Egitto durante il periodo napoleonico, iniziò a collezionare reperti archeologici, che al suo ritorno il Re Carlo Alberto comprò facendo nascere il Museo. Oppure la GAM, quando nel 1959 riapre, lo fa con una grande mostra delle opere dalle collezioni private torinesi. Questo per dirti che il collezionismo è una parte importante di questa città e i curatori di Come una falena alla fiamma hanno identificato questo aspetto.

Calvino ha detto che Torino attraverso la logica apre alla follia.
È una città che ha un’energia davvero unica. Tutto è nato a Torino. È un laboratorio, una città del fare che è riuscita a diventare anche una città del sapere. Non siamo solamente la Fiat. Qui, nella sede della Fondazione, si producevano cerchioni per le automobili un tempo. La fondazione Merz era uno stabilimento Lancia, alla OGR si riparavano i treni. Ora in questi posti si fa cultura. Torino è così: una città dove si fa ricerca.

È sicuramente un’eccellenza nel panorama italiano. Come Milano, che sta vivendo un momento d’oro. Però io ho la sensazione che restino comunque il fanalino di coda a livello europeo. Torino regge il confronto internazionale?
Sì. Credo che, con tutte le criticità di questi tempi, abbia saputo comunque reinventarsi. Quando io ero bambina era grigia, alle 8 di sera non c’era nulla, non c’era un locale. Ora invece è piena di energia. Ad esempio c’è un’accademia con studenti che arrivano da tutto il mondo. Abbiamo il Torino Film Festival, che non sarà Cannes, ma è un festival davvero sperimentale, all’interno del quale infatti noi cureremo una sezione di film dell’arte. C’è il Salone del Libro, che nonostante tutte le difficoltà ha saputo reagire. E ancora: non è un caso che il Club to Club sia qui. Per non parlare della gente: qui le persone hanno una preparazione, una cultura non casuale. Anche il nostro, è un pubblico formato, ricercato. Persino i bambini vengono coinvolti, solo noi ne ospitiamo 20.000 ogni anno.

Le Olimpiadi del 2006 hanno avuto un ruolo?
Assolutamente, da quel momento Torino è tornata cosciente delle energie che ha.

Che voto diamo alla prima edizione di Artissima firmata Bonaccossa?
Voto alto. Non lo dico perché è stata 9 anni qui in Fondazione, ma in pochi mesi si è inventata molte cose, come la sezione dei disegni, che trovo intelligentissima per una Fiera. Anche questa è una fiera di ricerca, dove trovi gallerie che generalmente non trovi nelle grandi fiere internazionali. Poi non è solo commerciale e persino i curatori hanno un ruolo.

A proposito di curatori: è un momento d’oro per una serie di giovani italiani. Francesco Manacorda, Vincenzo De Bellis, Massimiliano Gioni, Andrea Bellini, Francesco Stocchi, Luca Lo Pinto, Ilaria Bonaccossa, Alessandro Rabottini, Lorenzo Balbi, Cecilia Alemani, Nicola Ricciardi e tanti altri. Tutti alla guida di grandi istituzioni e molti di loro all’estero. Abbiamo vissuto di stenti per anni e adesso c’è una bellissima esplosione.
Il problema è la formazione. Non ci sono scuole di alta qualità per curatori e abbiamo stentato per questo. Non ci sono luoghi dove si possano formare, infatti molti di questi sono andati all’estero. Pensa a Ilaria Bonaccossa o a Nicola Ricciardi: arrivano dal Bard College. Non tutti possono però permetterselo e noi abbiamo il dovere di aiutare le prossime generazioni a formarsi in Italia. Noi facciamo la scuola per curatori italiani per questo, riceviamo moltissime applicazioni e ne selezioniamo 10. Da noi sono passati in tanti: Balbi per esempio era da noi e ora dirige il MAMBo. Adesso abbiamo un giovane di 24 anni come assistente curatore, Bernardo Follini. È bravissimo e speriamo segua lo stesso percorso.

Si vede già nell’Olimpo dell’Arte? Ovvero: se la tira?
Assolutamente no. È squisito. Qui l’umiltà è un requisito essenziale.

È nata un’altra stella alla Fondazione, almeno nel mondo dei social: il tuo capo della comunicazione Silvio Salvo ha sfondato la porta del Tempio Sacro dell’arte contemporanea e ci ha portato dentro l’ironia. I suoi fotomontaggi sono un cult, le istituzioni artistiche ora lo copiano e lo chiamano ovunque a parlare di comunicazione. Diciamo che però hai corso un bel rischio.
Io non ti nego che all’inizio ero preoccupata. Guardavo quello che faceva e pensavo “questo è matto”. Il mondo dell’arte contemporanea in un certo senso è chiuso, ha dei paraocchi molto spessi e dal punto di vista comunicativo sembra che si debba fare tutto in punta di piedi, in silenzio. Poi però ho visto che Silvio faceva questa cosa con una serietà incredibile, con passione e intelligenza, e mi sono fidata. D’altronde non volevo un mortorio, ma un luogo vivo e vitale, dove il dialogo e la libertà siano garantiti. Il tempo ci ha dato ragione. L’arte è così importante per far crescere nell’apertura mentale le prossime generazioni, che non può rimanere un settore elitario: dobbiamo avvicinare il più alto numero possibile di persone e questo modo di comunicare funziona.

E tu? Come ti sei avvicinata?
Se devo identificare un momento preciso, questo è nello studio di Anish Kapoor, 25 anni fa. Un’esperienza indimenticabile, dove è scattato qualcosa dentro di me e ho detto “voglio quelle opere”. Ma ci tengo a dire una cosa: non vivo il collezionismo col senso di possesso. Le opere sono mie solo sulla carta, ma in realtà sono di chiunque le voglia vedere.