Spike Lee: «Mi piace l'hip hop, ma della vecchia scuola» | Rolling Stone Italia
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Spike Lee: «Mi piace l’hip hop, ma della vecchia scuola»

Il regista americano, per due giorni in Italia, dice la sua su basket, musica e ovviamente politica: «La gente è stanca dei comportamenti della polizia»

Spike Lee

«Cosa ne penso dell’hip hop oggi? Beh, diciamo che sono della vecchia scuola!». Così risponde il regista Spike Lee quando gli chiediamo un commento sulla nuova scena musicale americana. Sorride e non aggiunge altro, lasciando intendere che dalla sua personale visione del rap – e in più in generale della cultura afroamericana – con Fa’ la cosa giusta (1989), è passata tanta acqua sotto i ponti.

Era il 1989 e il brano incluso nella colonna sonora, Fight The Power dei Public Enemy, divenne un enorme successo. «Se devo parlare di musica, la mia grande passione insieme allo sport, consiglio a chiunque non l’abbia ancora fatto di scaricare sul proprio iPod Songs In The Key Of Life di Stevie Wonder, un disco bellissimo».

Alle proteste che ci sono state a New York hanno partecipato tutti, ispanici, asiatici, bianchi, giovani di tutte le razze.

Il regista, giunto in Italia per due appuntamenti a Roma e Milano dedicati rispettivamente al rapporto tra cinema e arte e cinema e sport, confessa ai giornalisti di sentirsi fortunato: «In due giorni posso vedere una grande partita di calcio (Roma-Manchester City, n.d.r.) e una di basket (l’EA7 che incontra il Panathinaikos di Atene, n.d.r.), il mio sport preferito». Ben tre giocatori italiani militano nell’NBA, per noi un vero orgoglio nazionale: «Uno dei tre, senza fare nomi, gioca nei Knicks, la mia squadra del cuore, quindi… (sorride nuovamente lasciando la frase in sospeso, ndr)». Ma al di là dello sport e della musica, Spike Lee non si tira indietro davanti alle domande legate all’attualità, in particolare riguardo alla situazione incandescente che si è creata negli USA dopo che i Grand jury di Ferguson e New York hanno deciso di non incriminare i poliziotti rispettivamente per la morte di Michael Brown ed Eric Garner.

«Ogni volta che sono all’estero mi si chiede di fare da portavoce per 45 milioni di afroamericani, ma quello che dico è solo un’opinione strettamente personale: la gente è stanca, molto stanca dei comportamenti delle forze di polizia nei confronti della comunità afroamericana. La cosa curiosa è che alle proteste che ci sono state a New York hanno partecipato tutti, ispanici, asiatici, bianchi, giovani di tutte le razze. Quando è successo il fattaccio a Staten Island sono uscito in bicicletta e mi sono unito al corteo e l’impressione che ho avuto è che i giovani hanno a cuore il futuro, anche se spesso si pensa il contrario».

«Nel caso specifico della morte di Garner c’è un video che dimostra chiaramente cosa sia successo, eppure il giudice ha deciso di non incriminare né l’agente che ha stretto la vittima nella morsa né gli altri che gli sono montati addosso. Eppure l’autopsia ha confermato che l’uomo è stato ammazzato. Gli Stati Uniti si considerano il faro della democrazia, eppure i nostri comportamenti sono ipocriti perché non facciamo quello che predichiamo. Proprio in questi giorni è stato pubblicato un dossier sulle torture che la Cia ha inflitto ai prigionieri dopo l’11 settembre, una barbarie che non è servita a niente».

Scaricatevi “Songs
In The Key Of Life” di Stevie Wonder, è un disco bellissimo.

«Tornando ai casi di Ferguson e New York la domande è: quando prevarrà la giustizia? Nonostante una prova schiacciante come il video girato dall’amico della vittima i poliziotti sono riusciti a farla franca, per il momento. Speriamo che il governo federale faccia qualcosa e che ci sia un processo. La grande frustrazione che sentiamo è dovuta al fatto che i procuratori collaborano a stretto contatto con la polizia…l’unica speranza è che venga nominato un procuratore speciale che possa cambiare le cose».

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