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Provaci ancora Woody

Compie 82 anni un genio che ha rivoluzionato il cinema, il nostro immaginario e pure un po’ la nostra morale

Provaci ancora Woody

Non essendo noi raffinati intellettuali che cercano nella carriera di un artista tracce delle sue perversioni e della sua inclinazione a compiere reati, come è stato fatto con Kevin Spacey (qualcuno spieghi a chi ha passato in rassegna la sua cinematografia, psicanalizzandola, che un attore accetta le parti, non le scrive), nell’augurare a Woody Allen buon compleanno noi abbiamo deciso “solo” di raccontarvelo con alcune delle sue battute storiche. Non le più belle, forse, ma di sicuro quelle che ci dicono qualcosa di quest’uomo che è (stato) regista straordinario, cineturista in giro per il mondo nel declino della sua arte (regalando all’Italia e a Roma la sua opera più brutta), un musicista volenteroso e mediocre, un attore migliore di quanto lui stesso creda (pensate a Il prestanome, per dire, o a Provaci ancora, Sam) e che sopra ogni cosa rimane uno scrittore per immagini, e non solo, geniale.

“Usi la teoria del complotto solo perché non vuoi fare l’amore con me”

Io e Annie (1977), forse l’opera più ispirata, poetica, romantica, creativa di Woody Allen. In altri film è stato più sagace, in altri più divertente, in altri ancora più raffinato. Ma qui c’è una potenza emotiva, una scrittura così fluida e un’alchimia talmente speciale tra i personaggi che forse, tra i suoi capolavori, questo è il “più” capolavoro. E gli scambi tra lui e Annie sono lezioni d’amore, di umanità, di fragilità, di ironia come arma di sopravvivenza. Perché è l’unico modo di analizzarsi senza condannarsi a morte. Di quel film capolavoro che ci fece innamorare di Diane Keaton e che 40 anni fa fu celebrato anche dagli Oscar, questa non è la battuta migliore. Ci sono un paio di monologhi, per non parlare dei sottotitoli dei pensieri e degli split screen che sono entrati nella storia. Ma racconta benissimo, questa battuta che sembra detta da Di Battista l’altro ieri, tutta la potenza immaginifica e dissacrante di uno che ha fatto sempre film d’amore, facendoli diventare trattati politici e antropologici. Partendo da un io gaberiano, brillante nel capirsi e nel prendersi in giro, feroce nel condannare la fragilità pur non rinunciandovi mai. Si assolve imponendosi la peggiore delle condanne, la consapevolezza. Denuncia le sue debolezze e con esse quelle del (suo) mondo.

“New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata”

Ecco, se qui volessimo potremmo ricamare su Manhattan (1979) e Mariel Hemingway, la sua diciassettenne Tracy sedotta dal 42enne Isaac. Woody stesso: che meraviglioso attore, quando incarnava le sue intuizioni migliori e anche la sua autobiografia, visto che Tracy è esistita davvero ed era Stacey Nelkin ai tempi di Io e Annie. E così potremmo scatenarci. Ma l’artista e l’uomo sono due entità distinte e quindi in questo spartito a più voci e strumenti che suona melodie d’amore stonate (lui che viene lasciato dalla moglie per un’altra donna, la solita Diane Keaton come specchio e coscienza, Tracy) noi ci portiamo dietro la dichiarazione d’amore più bella, un lungo monologo sulla Grande Mela che si chiude con questa frase. New York, disincantata e generosa, spudorata e curiosa, fragile (e negli anni a seguire avrebbe scoperto quanto) e che fa delle differenze il suo motore, nel bene e nel male. Ha girato il mondo Woody, lo amano ovunque eppure quella è la sua casa, a partire da Brooklyn che l’ha visto nascere da una famiglia russo-austriaco-tedesca, con nonni che lo hanno iniziato alla cultura yiddish. Sarà per questo che l’America profonda continua a non amarlo. Quel monologo recuperatelo tutto: c’è il suo amore per Gershwin, c’è il travaglio dell’autore, c’è la sua voglia di essere amato dal pubblico senza assecondarlo, c’è l’amore e odio per il genere umano.

“Non sono i sei milioni di ebrei che mi preoccupano, è che i record sono fatti per essere battuti”

Intendiamoci di quel capolavoro sottovalutato – soprattutto per il numero delle battute di qualità in sceneggiatura – che è stato Harry a pezzi (1997) è stato difficile scegliere la battuta più bella. Eravamo indecisi tra “Taci! Tu sei un mago con le parole, se no come avresti fatto a convincermi a farti un pompino al funerale di mio padre?” e “Le due parole che uno desidera più sentirsi dire… Ti amo? Assolutamente no. E’ benigno”. Harry a pezzi è l’ultimo film dell’Allen caustico, geniale che ha riscritto la grammatica del cinema, è quasi una sorta di testamento artistico di chi sa che da lì in poi vivacchierà, con poche fiammate ma senza più nessuna invenzione. In questa battuta feroce che il protagonista rivolge al cognato bigotto ossessionato dall’Olocausto c’è il cineasta e l’uomo che non ha dogmi, ma solo dubbi, che per ribadire la sua identità di ebreo, la mette in discussione senza rete, andando dove nessuno avrebbe il coraggio di affacciarsi, per far ridere e riflettere. Un po’ come in Misterioso omicidio a Manhattan (1993) dice di non poter “sentire troppo Wagner, già sento l’impulso di invadere la Polonia” o in Anything Else (2003) in cui racconta di aver “litigato con due vigili. Sostenevano che Auschwitz fosse solo un parco a tema”. Harry è feroce nel guardare il suo mondo quanto lo è con se stesso, ridicolizza tutto e tutti, tranne, e non è un caso, le paure. Scherza sulla morte, una sua ossessione, sulla religione, sul sesso. Sui tabù: già perché i millenials conoscono solo l’Allen lezioso che ripercorre i generi classici, ma il nostro è stato un rivoluzionario iconoclasta. Non lo dimentichiamo.

“Sei il più grande amatore che ho avuto!”. “Beh, io mi alleno tanto da solo”

Amore e guerra (1975), quella strana parodia di Guerra e Pace con tocchi di Fedor Dostoevskij, è un embrione di quell’Allen cinematografico che salta tra teatro e realtà. No, non abbiamo scelto questa frase perché il protagonista si chiama Boris (come chi scrive), come peraltro il protagonista di Basta che funzioni. L’abbiamo presa tra tutte perché sul rapporto con il sesso e l’altro sesso, sulle fantasie e le realtà dell’universo emotivo e dell’amore fisico si fonda molta della commedia alleniana. Qui c’è la battuta geniale su Freud “ci siamo divisi sull’invidia del pene: lui ha voluto circoscriverla solo alle donne”, che ci ricorda che il vero sesso debole è quello maschile. E soprattutto Amore e guerra è il centro di quella cultura profondamente europea in cui Woody si è abbeverato, è cresciuto. Solo un europeo di Brooklyn poteva partorire un’arte unica, originale, sghemba e mordace come la sua.

“Non ci spenderei trenta secondi su quello che dicono i critici, sono il livello più basso della cultura”

Hollywood ending (2002) è già l’inizio della fine, è quel Woody Allen che surfa su quei 15 minuti di comicità che ci illudono, per qualche anno, che il prossimo suo film sarà un capolavoro. E lui, di fon-do autolesionista (ha lasciato l’unica donna che abbia mai davvero amato, Diane Keaton, per Mia Farrow), attacca quei critici che lo hanno fin lì osannato proprio quando ne avrebbe bisogno. Proprio nel momento in cui la sua vena creativa si sta esaurendo ma quando ancora sono pochissimi i critici che se ne sono accorti e lo stroncano. Si vendica fuori tempo massimo dei tempi in cui i flop (al botteghino) lo facevano soffrire senza ricordarsi che proprio quei recensori l’hanno tenuto a galla. Ma lui è così: ciò che ama, lo maltratta. Pensate a Dio, oggetto di metà delle sue battute. Dice di essere ateo, ma ne parlerebbe così tanto se non ci credesse?

Potremmo andare avanti per pagine e pagine, goderci il grande vate del paradosso e della riflessione malincomica, l’uomo che ha riscritto la metrica e la musica delle battute, dei dialoghi, dei monologhi (se non ci credete recuperate i suoi libri editi dalla Bompiani e meravigliosamente tradotti da Daniele Luttazzi: Rivincite-Senza piume-Effetti collaterali). Ma dal momento che auguriamo lunga vita al Maestro, ce le teniamo per i prossimi anni. Se cercate “Dio è morto, Marx è morto e anch’io oggi non mi sento tanto bene” sappiate che anche se l’avete vista su una t-shirt, l’ha rubata a Ionesco. Ha rubato ovunque, perché il tocco di Woody Allen è prendere ciò che c’era e farne qualcosa di nuovo, è mettere insieme Dio e Freud, (mal)trattandoli da suoi pari, trattando con romanticismo il sesso e con cinismo l’amore.

Perché lui ama le donne (pure troppo), tanto da portare i suoi grandi amori sullo schermo (Diane Hall, questo è il vero nome di Diane Keaton, che nell’intimità lui chiamava Annie, ha fatto otto film con lui) e riuscire ad accarezzare la bellezza delle sue attrici anche nei film più infelici. Ora sta per uscire La ruota delle meraviglie, con Kate Winslet, e sarà ancora così, ne siamo sicuri. Permetteteci di provare nostalgia per i film da cui sono tratte queste battute, per Hannah e le sue sorelle, per i surreali e selvaggi Zelig (“Leonard Zelig veniva spesso picchiato dai genitori. La famiglia Zelig abitava sopra a un bowling, ma erano spesso gli avventori del bowling a protestare per il troppo rumore”) e Il dittatore dello Stato libero di Bananas, per Crimini e Misfatti e La rosa purpurea. Per Radio Days, forse la sua opera più seria e sincera, per quei titoli che già nel loro ritmo, nella loro musicalità, nella loro perfezione sintattica ed evocativa erano, sono già dei capolavori.