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Laurie Anderson, un film da cani

La moglie di Lou Reed esordisce al cinema con "Heart of a dog". E va in concorso a Venezia. La grande artista, però, non convince con un’opera pretenziosa e irritante

Laurie Anderson "Heart of a Dog"

Laurie Anderson "Heart of a Dog"

Laurie Anderson. Da un breve sondaggio abbiamo scoperto che molti giornalisti presenti a Venezia avevano deciso un rientro anticipato vista la povertà del programma negli ultimi tre giorni. Pensavano di partire l’8 settembre, come Badoglio, poi scorgendo il programma hanno preso la decisione di rimanere fino alla mattina del giorno dopo. Inevitabile, Laurie Anderson – citata anche da Il ballo dell’estate dei Latte e i suoi derivati, perché seppur di nicchia ha saputo occupare l’immaginario di tutti con i suoi lavori – è un mito.

Ed ecco perché, forse, se sei un’icona una qualche responsabilità nei confronti della tua immagine, della tua produzione ce l’hai. E Heart of a dog, a Venezia, non lo dovresti portare. Neanche se ti invitano. Perché se a Caligari non è stato dato il privilegio di giocarsi il Leone con Non essere cattivo per il timore di essere ricattatori – unica spiegazione possibile, essendo il film migliore di questa Venezia 72 -, si fa fatica a non trovare opportunista la volontà di mettere in competizione lei, in onore del marito scomparso, Lou Reed. Due pesi e due misure, una decisione resa ancora più beffarda dalla scarsissima qualità del film della musicista e performance artist di Chicago. Tanto che la ricattatoria fotografia finale di Lou con la cagnetta Lollabelle è la cosa più bella del film, insieme alla colonna sonora (ovviamente) e alla dedica “al magnifico spirito di mio marito Lou Reed”.

Con una battuta, si potrebbe dire che l’ozio della ragione genera mostri. Questo lungometraggio dedicato alla cagnetta di Laurie, piccolo fenomeno che ha anche pubblicato un disco di canzoni di Natale – e viene il sospetto abbia perlomeno scritto questo film -, si dedica a erudirci sui pensieri brillanti dell’artista sull’universo mondo: 11 settembre, raccontato con un’esopiana fiaba che potremmo chiamare “la cagnetta e il falco”, buddismo, musica, linguaggio canino, società, critica d’arte, cultura popolare. E tanto altro. La tipica ossessione d’amore dei padroni verso i migliori amici dell’uomo qui vorrebbe diventare opera d’arte: una persona normale dedicherebbe una foto, un video su youtube al proprio quadrupede, magari uno struggente status sui social. Passi persino un quadro (qui invece la cagnetta dipinge e scolpisce!). La pioniera della cultura moderna americana, capace di dare corpo a tanti gioielli d’arte varia, in effetti doveva farci almeno una pellicola (oltre che dei quadri, ovvio). E siamo anche d’accordo, ma portare poi Heart of a dog alla Mostra è stato troppo.

Non si arriva agli 80 minuti, ma sembra non finire mai, così concentrato com’è, l’opera, ad alimentare l’ego dell’artista, anche qui “narratrice di storie” – così ama definirsi e di solito è impareggiabile nel farlo, ma qui si limita ad essere solo irritante e supponente voce fuori campo – e l’impressione è di assistere a una serie di pillole di saggezza di chi è convinto di avere tante piccole verità in tasca, tra aneddoti e deduzioni che non rendono onore al suo brillante intelletto. Ed è un peccato, perché la splendida Turning Time Around di Lou Reed meritava miglior posizionamento, perché alcuni momenti denunciano il fatto che fosse possibile fare qualcosa di buono – bellissima l’animazione iniziale “su china”, non male l’idea della dog cam -, ma tutto è drogato dalla dittatura dell’Andersonismo, di una volontà di imporre il proprio punto di vista e di vita, condividendo con noi un’intimità che ci risulta respingente. E se agli italiani giustamente viene imputato il cinema “due camere e cucina”, agli intellettuali tanto geniali quanto radical chic americani dovremmo porre l’etichetta di “una camera e lettino” (quello dello psicanalista) visto anche Anomalisa, già dichiarato da molti come possibile Leone d’Oro, ma in realtà opera di nicchia tutta concentrata sulle debolezze di un uomo normale e fragile, forse persino troppo somigliante al suo autore, appunto. Charlie Kaufman, non uno qualunque.

E neanche Laurie lo è. Ecco perché è straordinaria anche quando fa qualcosa di brutto. Non sa toccare la mediocrità, come minimo ci regala uno stra(s)cult. Anche nel brutto sa essere grande alla fine.

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