Cola e pop Corn: l’Italia va a gonfie vele, il resto del mondo no | Rolling Stone Italia
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Cola e pop corn: l’Italia va a gonfie vele, il resto del mondo no

Tutto il meglio e il peggio delle uscite in sala di questa settimana

dove non ho mai abitato

Se nel calcio con Albania e Macedonia facciamo piangere (o ridere, a seconda dell’angolazione da cui si vede), al cinema, almeno questa settimana, va tutto bene. In tre generi diversi – melodramma borghese di grande rigore formale, biopic musicale e commedia sentimentale – diamo il meglio. Mentre altri tre film apparentemente “sicuri” – un thriller con un supercast con un regista acclamato e tratto da uno scrittore amatissimo, una commedia “familiare” figlia d’arte e un franchise finora ben riuscito – crollano sotto il peso, forse, anche delle nostre aspettative.

Dove non ho mai abitato: 9

Paolo Franchi è tra i nostri registi migliori: il suo sguardo, il suo linguaggio cinematografico, la sua architettura psicologica e morale nella narrazione visiva, sono unici (solo lui e in modo diverso Guadagnino fanno un certo tipo di cinema) e potentissimi. Finora, quando più e quando meno, aveva avuto difficoltà a trovare un equilibrio tra questo talento, tra quella macchina da presa capace di indagare ogni spazio fisico e umano, e il racconto, il percorso di personaggi e storie. Con Dove non ho mai abitato commuove e ci inchioda tutti, Franchi, capace di regalarci immagini in movimento bellissime e piene di vita, d’amore, di dolore, di inesorabile impotenza (perché non sappiamo più amare, soprattutto se protetti da case troppo belle e obblighi troppo facili da rispettare). E’ aiutato, in questo cinema raro e prezioso, in questo racconto profondo e vibrante, da un Fabrizio Gifuni in gran forma, capace di essere ghiaccio bollente, e un’Emanuelle Devos piena di grazia ruvida. Ma tutto il cast, Brogi in testa, è perfetto, in quello che è semplicemente gran cinema. Anche politico, oltre che estetico, perché sa dirci cosa siamo diventati. E dove, e come.

Nico, 1988: 8

Susanna Nicchiarelli è di quelle registe di cui intuisci subito le qualità e da cui, immediatamente, hai voglia di avere di più. Fu così con Cosmonauta, esordio brillante e nobilmente incompiuto (ma, forse, bello anche per questo), e con La scoperta dell’alba, opera ambiziosa e sballata, perché quando hai tante idee, una base narrativa non ottima e troppe direzioni da prendere, puoi sbagliare. Poi, arriva Nico. Uno di quei film che sono avventure per chi li affronta ancora prima che per chi li guarda, una di quelle opere che dovrebbero essere raccontate dentro e fuori. E una cineasta trova la quadratura di tanti cerchi: un’attrice come Trine Dyrholm che doma quell’icona divenuta donna attraverso un processo di distruzione progressiva e ricostruzione dolorosa, una colonna sonora (che bravi Gatto Ciliegia contro Il grande freddo) mai banale e coerente con una storia coraggiosa, un cast che da Thomas Trabacchi ad Anamaria Marinca sa sorreggere un racconto maturo e ispirato. I costumi di Francesca e Roberta Vecchi, la bellissima fotografia di Crystel Fournier, il lavoro di ricerca su Christa Paffgen (e non su Nico, che tutti si sono illusi di conoscere), sono i tasselli di un lavoro accurato e appassionato. E quel talento, ora, è pienamente realizzato. Magari con voce roca e diversa, come quella di Christa, magari senza fare ciò che fanno tutti. E meno male.

Nove luna e mezza: 7,5

Se tutte le commedie italiane partissero da qui, se far ridere fosse fare del sano pop e parlare di cose serie con sorriso e anche risate – il segreto, fondamentalmente, della commedia all’italiana -, non ci lamenteremmo più del cinema commerciale italiano. Perché Michela Andreozzi ci dimostra che si può far un’opera per il pubblico con delicatezza e sagacia, accarezzando lo stereotipo e poi voltandogli le spalle, facendo un casting non con i nomi (che pure ci sono: Gerini, Lillo, Stefano Fresi, la solita certezza) ma con le facce giuste. Una sorella non può avere figli e ne vorrebbe, l’altra può e non li vuole. In un’Italia come la nostra, non ci sarebbe soluzione: ma un ginecologo gay (Fresi) decide che la sorellanza può far restare incinta l’una per (e con) l’altra. Inizia una commedia che non risparmia niente e nessuno – religione, moralismi d’accatto, uomini e donne – e allo stesso tempo sa essere lieve e divertentissima. Lillo, nel suo percorso solitario, dimostra una crescita eccezionale, Pasotti finalmente toglie il muso e se la cava bene, piace Massimiliano Vado nella parte del gay più antipatico dei due (non facile, ma ben riuscita), Tiberi e Potenza sono una coppia straordinaria nella loro teocratica follia, tutto è ben bilanciato, in scrittura, nei ritmi e in regia. E alla fine la Andreozzi, anche coprotagonista, partorisce un ottimo film, che troverà, siamo convinti, un passaparola meritato. E, diciamolo, viva gli attori registi: perché fanno recitare i colleghi bene. E sappiamo quanto ne abbiamo (e abbiano) bisogno.

Lego Ninjago il film: 6

Il primo è stato sorprendente e innovativo. Il secondo, scippando Batman a un altro franchise, è stato incosciente e geniale, soprattutto nei temi adulti e nei sottotesti freudiani. Il terzo, forse inevitabilmente, doveva guardare più al botteghino, più al target commerciale, che ai contenuti e alla forma cinematografica. Ne esce un’opera di intrattenimento sufficiente, con un immaginario per minori di anni 10 (coloro che sanno cos’è la crasi tra ninja e lego) e per i loro genitori nostalgici dell’Oriente a uso e consumo dell’Occidente di Karate Kid. Tutto il resto è (un po’) di noia. Bene così, ma ora o sarà rivoluzione o la rivoluzione dei Lego Movie, nella forma e nei contenuti, diventerà un veicolo vuoto di un qualcosa che rischia di stancare molto presto. E i franchise senz’anima muoiono presto.

40 sono i nuovi 20: 4

Alcuni film si fondano su equivoci drammatici (per il pubblico). Che i figli d’arte siano, in quanto tali, dotati delle qualità e dell’occhio dei genitori: Hallie Meyers-Shyer lo sa così bene che dopo aver fatto l’attrice – è bella e con un certo carisma – dietro la macchina da presa si presenta col doppio cognome dei genitori, sceneggiatori e cineasti che lavorano spesso insieme, da What Women Want a Il padre della sposa. Ecco: lei di papà e mamma ha il cognome e poco più. Altro equivoco è che la volenterosa Reese Whiterspoon sia una brava attrice: sa sembrarlo, a volte, con bravi registi. E’ una donna così intelligente, per dire, che quando produsse L’amore bugiardo, seguì il consiglio di David Fincher e non si scritturò. Pur avendone preso i diritti per recitarvi. Se non ci crede lei, perché gli altri lo fanno? Se poi ci metti un milf movie “vorrei ma non posso” la frittata è fatta: tutto qui è bello, dai vestiti alle case, tecnicamente ineccepibile e irrimediabilmente rigido e freddo. Famiglia disfunzionale e gap generazionale, poi, sono argomenti triti e ritriti. Un disastro. Elegante, ma disastro.
P.S.: C’è anche Michael Sheen. E non è un caso ce ne ricordiamo solo ora.

L’uomo di neve: 2

Un thriller di Nesbø. Fassbender e Val Kilmer. Tomas Alfredson, il regista di Lasciami entrare e La talpa. Il critico e lo spettatore già si abbracciavano con l’entusiasmo di quando il bomber della tua squadra è davanti alla porta avversaria e ha superato il portiere. E poi la disperazione, palla alle stelle. Ecco ciò che si prova con L’uomo di neve, un lavoro imbarazzante e sconclusionato, senza neanche un tempo giusto, con un grande attore (Fassbender) che sembra aver perso un po’ la bussola e Alfredson che appare come la pallida controfigura del grande profeta del genere d’autore che eravamo convinti d’aver trovato. Forse, come nei testacoda calcistici, l’impresa era così facile da essere stata affrontata con distrazione e sufficienza: certo, non è da tutti i giorni veder sbagliare un rigore a porta vuota. E si ripropone il problema presentatosi con La torre nera: quando cerchi di condensare i King o i Nesbø, non tanto nelle trame quanto nello spirito, in poche decine di minuti pretendendo di “bignamizzarli”, la catastrofe è in arrivo. E ti travolge.